I 20 migliori dischi JAZZ del 2020

Afrofuturismo, big band, remix e rarità dal Sudafrica alla Scandinavia: la nostra classifica dei 20 migliori album jazz dell'anno

Jeff Parker, Suite For Max Brown - i migliori 20 dischi jazz del 2020
Jeff Parker, Suite For Max Brown
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Dicembre, tempo di bilanci: ecco la nostra consueta "classifica" annuale con i migliori dischi jazz usciti in questo strano 2020.

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1. Jeff Parker, Suite For Max Brown, International Anthem

Dedicato alla madre Maxine, questo disco del chitarrista Jeff Parker è un gioiello costruito sull’incontro tra improvvisazioni dal vivo e beats digitali. Che sia l’ipnosi ritmica attorno a un frammento di Otis Redding o una rilettura da polvere di stelle di “After The Rain”, il gommoso eterno ritorno di “Gnarciss” o la suadenza sorniona a sei corde di “3 For L”, ogni dettaglio di questo lavoro racconta di un jazz attualissimo e comunicativo, sganciato dagli schemi in cui il sistema educativo e quello del transitorio clickbaiting, nonché la scarsa fantasia, spesso ingabbiano anche i talenti più scalpitanti. Un vero e proprio viaggio assemblato con coraggio e arditezza prospettica, piuttosto unico e irrinunciabile.

2. Gil Scott-Heron, We're New Again / A Reimagining By Makaya McCraven, XL

Le atmosfere scarne ed essenziali dell’ultimo, folgorante disco di Gil Scott-Heron, I Am New Here.. (era il 2010) vengono reimmaginate dal talentuoso batterista Makaya McCraven. Immergendo le canzoni originali in un rinnovato e inedito flusso strumentale, portatore di una dialettica tra le tendenze di oggi e quella tradizione cui non smette mai di fare riferimento, McCraven compone un affresco black strepitoso, con l’aiuto di alcuni dei nomi più eccitanti della scena jazz di Chicago (città natale di Gil Scott-Heron), dal bassista Junius Paul al vibrafonista Joel Ross, dal chitarrista Jeff Parker  a Greg Spero alle tastiere, passando per Ben Lamar Gay e Brandee Younger. Ma anche campionando alcuni momenti dai dischi del padre, il batterista Stephen McCraven. Un sogno!

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Makaya McCraven migliori dischi jazz 2020

3. Anna Högberg Attack, Lena, Omlott

Arriva dal Nord il disco WOW del 2020. Dalla Svezia, terra di improvvisatori feroci che con un certo tipo di jazz ha un legame proficuo e profondo fin dai tempi delle scorribande scandinave dei vari Albert Ayler, Don Cherry e Cecil Taylor. Lei si chiama Anna Högberg, le mancano cinque anni per arrivare ai quaranta e ai più attenti sarà capitato magari di notarla nel mucchio selvaggio della Fire! Orchestra del cattivo maestro Mats Gustafsson (a proposito di svedesi feroci...). Il posto giusto nel quale affilare le intenzioni se hai un sestetto che si chiama Attack e in testa sei brani che sono un concentrato di purissimo free. Roba che scotta, Lena, un'infilata di schiaffoni assestati con lucidissima cattiveria. Mettersi in fila, ce n'è per tutti.

4. Irreversible Entanglements, Who Sent You?, International Anthem

Dove eravamo rimasti? A un debutto datato 2017 che prometteva meraviglie e scintille. Tre anni dopo gli Irreversible Entanglements non sono soltanto una delle più incredibili band in circolazione (letali, compatti, necessari), ma la trave sulla quale poggiano un'intera scena e un'idea mai così attuale di impegno e politica applicati al jazz. La colonna sonora dell'America post-Obama, così come il free lo è stato di quella post-Kennedy. Se ci pensate non può essere un caso che Who Sent You?, secondo disco del quintetto ancorato al basso sempre più carismatico di Luke Stewart e al magnetismo della sacerdotessa Camae Ayewa (aka Moor Mother), sia uscito un mese prima della barbara uccisione di George Floyd e venga doverosamente celebrato in questi giorni di classifiche e playlist, proprio mentre scorrono i titoli di coda sull'era Trump. Dentro la storia, addosso al presente.

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5. Asher Gamedze, Dialectic Soul, On the Corner

La grande tradizione del jazz sudafricano trova nel batterista Asher Gamedze, qui al debutto da leader, un altro fantastico esempio. Dialectic Soul si apre con una suite tripartita che riprende con grande immediatezza le tensioni creative degli anni Sessanta e della New York di William Parker, ma sterza poi verso la dolcezza rituale della strepitosa “Siyabulela” per aprire a una seconda parte in cui la componente politica trova voce in un continuo dialogo tra la spinta di protesta e la capacità di far danzare la musica con un’urgenza che arriva dritta al cuore. Debutto dell’anno.

6. Thelonious Monk, Palo Alto, Impulse!

Nostro signore degli archivi dacci oggi il nostro inedito quotidiano. La storia è nota e in tanti l'hanno raccontata con dovizia di particolari da quando l'uscita è stata annunciata per l'estate, posticipata a causa di una disputa legale e infine confermata per l'autunno. 1968. 27 ottobre. Monk e il suo quartetto (Charlie Rouse, Larry Gales, Ben Riley), in California per una scrittura di tre settimane al Jazz Workshop di San Francisco, accettano di esibirsi alla Palo Alto High School su invito di uno studente. In un contesto di crescenti tensioni razziali e nel pieno di un anno difficilissimo per il pianista, reduce dal (quasi) canto del cigno di Underground e destinato di lì a breve a imboccare per sempre il viale del silenzio, la band consegna alla storia, grazie alla registrazione di un bidello e con 52 anni di ritardo, un ulteriore scampolo di leggenda. “Ruby, My Dear”, “Blue Monk”, “Epistrophy”, “Well, You Needn't”: serve altro?

Monk migliori dischi 2020 jazz

7. Rob Mazurek Exploding Star Orchestra, Dimensional Stardust, International Anthem

Data astrale 2020. Dal diario di bordo del comandante Rob Mazurek, in viaggio verso l'infinito e oltre con la navicella Exploding Star. Alla ricerca di nuove forme di vita musicali, per arrivare là dove nessuna orchestra si è mai spinta prima. Oltre gli anelli di Saturno e i satelliti di Giove, dentro il pulviscolo stellare di un jazz danzante e vaporoso, che pulsa e brilla sullo sfondo di uno spazio mai così accogliente e confortante. We Are All from Somewhere Else si intitolava il primo disco dell'Exploding uscito nel 2007; “We All Come from Somewhere Else” ribadisce il comandante Mazurek nel penultimo brano affidato alle amorevoli cure di un equipaggio galattico (Jeff Parker, John Herndon, Chad Taylor, Nicole Mitchell, Tomeka Reid, Joel Ross, Damon Locks...). Un altrove che è un caldo abbraccio cosmico, un ritorno a casa tra corpi celesti in perenne rivoluzione e scie di comete sulle quali ci accolgono Phil Cohran e Sun Ra.

8. The End, Allt Är Intet, RareNoise Records

Che playlist sarebbe senza un disco di Mats Gustafsson? Allt Är Intet, “tutto è niente” in svedese, segna il ritorno a gamba tesa del quintetto The End e alza di una buona spanna il livello rispetto al pur pregevole debutto di due anni fa. Batteria pesante, chitarra baritono e la coppia Gustafsson-Kjetil Møster a sputare fuoco dai sassofoni, il gruppo è costruito attorno a un'idea di jazz-rock dalle cadenze metallare e allo strumento-voce della mai troppo lodata Sofia Jernberg. Struggente nei panni della Karen Dalton di “It Hurts Me Too” (che sta ad Allt Är Intet come “Blue Crystal Fire” un anno fa stava ad Arrival della Fire! Orchestra), ma perfettamente a suo agio anche tra i gorghi scuri di un flusso che spesso si fa minaccioso e brulicante di elettroniche presenze.

9. Matteo Bortone, No Land's, Auand

Teorizzato e trasformato in disco su invito dei festival di Novara e del Südtirol, il quarto lavoro a firma del contrabbassista Matteo Bortone ruota attorno a una versione aumentata dei Travelers, quartetto italo-francese varato nel 2013: Antonin-Tri Hoang (sax contralto e clarinetti), Francesco Diodati (chitarra) e Ariel Tessier (batteria) le conferme, Julien Pontvianne (sax tenore e clarinetto) e Yannick Lestra (rhodes, synth e pianoforte) gli ultimi arrivati. Tutti insieme appassionatamente per un programma di originali che ha la sua ragione d'essere in un jazz moderno, cangiante, brooklyniano nella testa ed europeo nell'anima. Un mix centrato di passaggi ad alto tasso di abrasività (la doppietta “Dougie Jones” – “Future/Past”), pennellate d'autore (“Shapeshifter” e la bellissima “Ichi go Ichi E”) e momenti più raccolti (la mistica “Delta”, porta d'ingresso e invocazione). Applausi.

10. Jyoti. Mama, You Can Bet!, SomeOthaShip Connect

Progetto “jazz” della proteiforme Georgia Anne Muldrow, Jyoti, qui impegnata a evocare un convincente impasto tra soul, hip-hop e materiali jazz. Tra echi mingusiani (“Bemoanable Lady Geemix” e “Fabus Foo Geemix”) e di Sun Ra, pulsazioni afrofuturiste e ossessioni liriche old-school, la narrazione black della Muldrow si fa autobiografica e intensa, intesse un dialogo pubblico e privato con la propria eredità culturale e fa esplodere nel cuore di un 2020 forzosamente isolazionista una possibilità di fare comunità a partire dalla propria storia. Spettacolare.

11. She's Analog, What I Bring, What I Leave, Auand

Progetto che fa triangolare Stefano Calderano (chitarra), Luca Sguera  (tastiere) e Giovanni Iacovella (batteria), She’s Analog è probabilmente una delle cose più originali sentite dalle nostre parti negli ultimi mesi. Elettronica più o meno vintage, curiosità timbrica, voglia di sperimentare improvvisando, immergendo i piedi nelle acque non sempre chete in cui spumeggiano ondine post-rock e fantasmi cinematici: tutti ingredienti che non bastano da sé, ma che trovano nella profonda sintonia musicale tra i tre le energie per dipingere ipotesi di complicità piuttosto coinvolgenti. Visionario.

12. Lynn Cassiers,Yun, Clean Feed

Impara gli standard e mettili da parte. È quello che fa la cantante belga Lynn Cassiers, alla guida di un gruppo elettroacustico capace di evocare cortocircuiti spazio-temporali. Da temi abusati come “I Love You”, “But Not For Me” o “We’ll Be Together Again”, la Cassiers estrae solo la linea melodica (che emerge quasi noncurante a brano già avanzato), costruendoci attorno delle strutture armoniche e ritmiche originali, fatte di pulviscolo elettronico e di sangue improvvisato, in un gioco di scatole cinesi che riterritorializza continuamente la percezione del rapporto tra invenzione e tradizione. Intrigantissimo e riuscito.

13. Schnellertollermeier, 5, Cuneiform

Trio svizzero che dell’inquietudine creativa ha fatto un formidabile dispositivo per scardinare un bel po’ di luoghi comuni jazz, gli Schnellertollermeier trovano in 5 il loro lavoro più maturo e efficace.
Chitarra-basso-batteria, organismo che si svincola dalle convenzioni e rovescia gli elementi lessicali come un bimbo farebbe con i mattoncini lego sul tappeto per riassembla i ruoli – la chitarra è spesso propulsore ritmico – in modo creativo. Si parte e si viaggia elettrizzati tra minimalismi fibrillanti e gommosità post-rock, ma man mano che si procede nell’ascolto ci si rende conto che i paesaggi elettrici riservano anche radure più nebbiose e ronzanti raggi di luce che filtrano da chissà dove. Gioiello elettroacustico.

14. Junk Magic, Compass Confusion, Pyroclastic Records

Torna uno dei progetti più intriganti del tastierista Craig Taborn. Con i fidati David King (batteria), Chris Speed (sax tenore e clarinetto), Erik Fratzke (basso) e Mat Maneri (viola) si entra in un laboratorio ininterrotto e pulsante di echi sperimentali. Senza curarsi di misure di protezione i cinque miscelano ingredienti dai colori fosforescenti e dalle finestre baluginano spettri di Stranger Things che danzano a braccetto con sinuosi corpi d’improvvisazione. A volte i vapori evocano scenari piuttosto angoscianti (come nella caligine infestata di “The Night Land” o nei lacerti a molla della lunga “The Science Of Why Devils Smell Like Sulfur”), altre volte, come in “Sargasso”, si superano le colonne d’Ercole delle convenzioni improvvisazione + elettronica per provare sotto le orecchie di tutti che la fusione cosmica è, non solo scientificamente possibile, ma anche maledettamente intrigante.

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15. Horace Tapscott with the Pan Afrikan Peoples Arkestra, Ancestral Echoes, Dark Tree

Un altro tassello ad arricchire il mosaico di un'eredità sulla quale, tra benedette ristampe e folgoranti inediti, sembra essersi finalmente diradata la nebbia. Dopo aver tirato fuori dagli scatoloni della Pan Afrikan Peoples Arkestra un live della fine degli anni Novanta, Why Don't You Listen (2019), la Dark Tree ci delizia con il bis rispolverando una session in studio del 1976. Al piano il gigante Horace Tapscott, fondatore e spirito guida di una big band sfavillante (Jesse Sharps, Linda Hill, Adele Sebastian, Michael Session, David Bryant) che era l'avanguardia di un movimento politico-culturale molto più ampio e radicato nel tessuto della Los Angeles in black fin dai primi anni Sessanta. C'è tutto nelle quattro lunghe tracce di Ancestral Echoes: l'abbandono, la danza, la gioia di riaffermare il senso profondo dell'essere e sentirsi comunità, il jazz inteso come pratica quotidiana di inclusione e condivisione. Tra le stelle e i pianeti di Sun Ra, con la mano tesa verso la madre Africa.

16. Kaja Draksler Octet, Out For Stars, Clean Feed

Pastorale slovena. L’amore per la poesia di Robert Frost, la capacità di fare incontrare improvvisatori e temperamenti di vari luoghi d’Europa in un camerismo contemporaneo acceso da un desiderio febbrile di sperimentare in armonia con la natura, il controllo ormai maturo del lirismo. Sono solo alcune delle qualità di questo nuovo lavoro dell’ottetto della pianista Kaja Draksler. Assecondata da compagne e compagni di avventura sensibilissimi nella loro ricchezza transgenerazionale (alle ance ci sono musicisti ormai maturi come Ab Baars o Ada Rave, la ritmica è di trentenni) e grazie a un uso delle voci che apre a immaginari folk visionari e sempre cangianti. Splendido.

17. Peter Evans, Being & Becoming, More Is More Records

C'è chi l'anno della pandemia se l'è fatto scivolare addosso sperando solo di uscirne il prima possibile, e chi invece ha deciso di mettere a frutto il tempo sospeso che malauguratamente ci è stato concesso. Peter Evans, ad esempio, che tra vecchi e nuovi progetti si appresta a timbrare e archiviare un 2020 discograficamente strepitoso. Al centro del quale spicca il fantastico Being & Becoming, esordio subito a bersaglio del funambolico quartetto completato da Joel Ross (vibrafono), Nick Jozwiak (contrabbasso) e Savannah Harris (batteria e percussioni). Alle prese con un programma di originali che il trombettista newyorchese, virtuoso inarrivabile e compositore non meno spericolato, ha messo su spartito con il consueto puntiglio; bebop cubista e futuribile, ossessivo, cervellotico, denso come il nucleo di una stella. Ai confini della realtà.

18. Bigoni/Sanchez/Gallo/Carpentieri, You Look Fly, Bandcamp

Uscito un po’ in sordina su Bandcamp, questo lavoro smentisce senza malizia la vulgata secondo cui una registrazione dopo qualche anno non è più attuale. Risale infatti al 2012 questo incontro tra il sax di Francesco Bigoni, il pianoforte di Angelica Sanchez, il basso di Danilo Gallo (che nell’anno ha fatto uscire anche l’ottimo Dark Dry Tears) e la batteria di Enzo Carpentieri. Il jazz è così: ci sono sedute (o concerti) in cui tutto sembra fluire magicamente, in cui ogni pulsione viene assecondata e fatta rimbalzare verso l’ignoto dai compagni di avventura, in cui ci si trova a occhi chiusi e si fa della musica eccellente. Altre volte, pur con gli stessi artisti, non succede. Inutile dire che qui siamo nella prima ipotesi e tutto è pressoché spettacolare.

19. Tell No Lies, Anasyrma, Aut Records/Fonterossa

Niente bugie, niente mezze verità. Da programmatica dichiarazione d'intenti contenuta nel nome della band, il quintetto Tell No Lies del pianista bolognese Nicola Guazzaloca mette in fila il disco numero tre, il secondo in studio, dando una forma ancora più tagliente e definitiva alla sua idea di jazz-verità. La verità di una musica che è sangue, respiro, eccitazione, piedi che battono nella polvere, assoli roventi a rimbalzo tra i tasti, le corde, le pelli e le ance (fenomenale l'abbinata Filippo Orefice-Edoardo Marraffa). C'è il Sud Africa di Chris McGregor e Dudu Pukwana, ci sono Mal Waldron e Archie Shepp ad alimentare il fuoco sacro dell'ispirazione, ma soprattutto c'è un'attitudine “black & blues” che invita a danzare con giubilo attorno al grande albero degli antenati.

20. Anna Webber & Angela Morris, Both Are True, Greenleaf Music

Doppia firma su quello che è un vero e proprio manuale di scrittura e direzione per moderna orchestra jazz. Le sassofoniste Anna Webber e Angela Morris, alla testa di una big band di 18 elementi dall'impronta decisamente newyorchese, si confermano tra le alunne più promettenti della classe nella quale hanno insegnato docenti come Gil Evans, Sam Rivers, Bob Brookmeyer e Maria Schneider. Architetture complesse, musica dettagliata, fitta, sorprendente per la varietà e la vivacità di soluzioni e di impasti timbrici. Con qualche pennellata gustosa di pop, un evidente debito d'affetto nei confronti di certo minimalismo e una propensione narrativa che tiene incollati alla seggiola dal primo all'ultimo secondo. Classe.

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