Horace Tapscott, festa e rito

La  Pan Afrikan Peoples Arkestra di Horace Tapscott con The Great Voice of UGMAA in un emozionante live del 1998

Horace Tapscott with the Pan Afrikan Peoples Arkestra and the Great Voice of UGMAA
Disco
jazz
Horace Tapscott with the Pan Afrikan Peoples Arkestra and the Great Voice of UGMAA
Why Don't You Listen? - Live at LACMA, 1998
Dark Tree Records
2019

La storia del jazz è ricca di dischi e progetti che vedono l’utilizzo di un coro: da It’s Time di Max Roach ai Sacred Concerts di Duke Ellington, passando per il Donald Byrd di A New Perspective, gli inni cosmici di Sun Ra e le più recenti uscite di Kamasi Washington, l’utilizzo di più voci ha raccontato di volta in volta l’afflato di una comunità, la forza della voce umana quando si unisce a altre, il legame con l’espressione più diretta del sentimento musicale.

La pubblicazione del concerto della Pan Afrikan Peoples Arkestra di Horace Tapscott al Los Angeles County Museum of Art nel luglio del 1998, insieme al coro The Great Voice of UGMAA (Union of God’s Musicians and Artists Ascension) aggiunge ora una pagina intensa alla lista. 

Il disco si intitola Why Don’t You Listen? Live in LACMA 1998 (Dark Tree Records) e documenta la ricchezza del mondo sonoro di Tapscott, nonché la sua importanza per tutta la comunità losangelina.

Pianista, compositore, arrangiatore, attivista, figura di riferimento per diverse generazioni di musicisti, sebbene ancora sottovalutato nella considerazione degli ascoltatori, a partire dalla fine degli anni Cinquanta Tapscott ha attraversato i decenni – morirà nel 1999, pochi mesi dopo il concerto del disco – condividendo una visione artistica collettiva di rilevante originalità.

Due intensi set, nonostante Tapscott fosse già malato, di cui il disco ci restituisce oggi cinque lunghi brani: “Aiee! The Phantom”, un’energica resa della ellingtoniana “Caravan” con Dwight Trible (che anche dirige il coro) alla voce, un omaggio a Fela Kuti, la veemente title-track e la toccante “Little Africa”. È una musica che costruisce, che comunica costantemente con la comunità – che infatti risponde spesso in modo convinto dal pubblico – e lo fa sia nelle lunghe intro (che magari in un disco in studio sarebbero oggetto di editing) che nell’alternarsi degli assoli e nel sorgere degli episodi vocali, nel loro iterarsi.

È musica che fa sintesi di tensioni espressive e culturali, restituendole alla loro spettacolare tensione tra celeste e terreno (non a caso nell’ensemble ci sono ben tre contrabbassi!), che ancora oggi emoziona. Non sorprenderà che proprio il celebrato Kamasi Washington abbia più volte indicato l’esperienza dell’Arkestra di Tapscott come un punto di riferimento: quel tipo di messaggio, spirituale e sociale, collettivo e immediato si muove in evidente continuità emotiva e artistica con questo festoso rituale, che emerge dalle note del disco in modo disarmante. Bellissimo.

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