I migliori dischi del 2025 di Alberto Campo
L'anno del dubbio: più America Latina che Stati Uniti, più Europa mediterranea che Regno Unito
13 dicembre 2025 • 3 minuti di lettura
Prima ho scelto i dischi, abbastanza istintivamente, poi ho provato a ricavarne un senso, tipo leggere il futuro nei fondi del caffè.
Morale? La proverbiale egemonia angloamericana è evaporata. Più America Latina che Stati Uniti. Più Europa mediterranea che Regno Unito.
Direi che minimo denominatore comune è un’aspirazione a forzare i confini, siano essi materiali o metaforici. La mescolanza come rimedio alle crescenti storture del mondo, senza timore di fare la fine di Babele (Rosalía insegna).
Nel disordine, unico ordine rispettabile è quello alfabetico.
1. Oren Ambarchi, Johan Berthling & Andreas Werliin, Ghosted III (Drag City)
Terzo atto di una fertile collaborazione sulla rotta che dall’Australia conduce in Svezia, parzialmente anticipato dal vivo durante l’ultima edizione del festival torinese Jazz Is Dead!.
Un dialogo liberamente improvvisato fra chitarra elaborata e ritmiche ipnotiche.
2. Cate Le Bon, Michelangelo Dying (Mexican Summer)
La visione aristocratica del pop espressa dalla cantautrice gallese è modellata questa volta sugli impulsi emotivi suscitati dalla fine di una relazione e genera una raffinata alchimia che le consente di tramutare il dolore in bellezza.
3. The Necks, Disquiet (Northern Spy)
Tre ore abbondanti di musica collocata all’apice di una carriera estesa nell’arco di quasi quattro decenni: il ventesimo album del trio australiano ne conferma l’identità ineffabile.
“Non completamente avanguardia, né minimalista, neppure ambient e nemmeno jazz”, sta scritto su Bandcamp.
4. Stefano Pilia, Lacinia (Die Schachtel)
Il progetto più ambizioso concepito finora dal chitarrista e compositore genovese, diplomato al conservatorio di Bologna, sua città adottiva.
Una minuziosa struttura ciclica per organico orchestrale e cameristico, fra classica contemporanea e musiche liturgiche di epoca rinascimentale.
5. Lido Pimienta, La Belleza (Anti-)
L’eclettica artista colombiana in Canada si discosta da ascendenze afrolatine e sonorità elettroniche, orientando la propria fierezza indigena verso una dimensione sinfonica rappresentata da orchestra e coro.
Una sfida affrontata con audace spregiudicatezza.
6. Rosalía, Lux (Columbia)
La diva catalana ha osato l’impossibile, cantando in 13 lingue differenti, accompagnata dalla London Symphony Orchestra, e mescolando sacro e profano, misticismo femminile e biografia personale, carnale “regina del caos” e biblica “luce del mondo”.
Un vero miracolo.
7. Stereolab, Instant Holograms on Metal Film (Warp)
Sull’onda della ricostituzione datata 2019, la band di Tim Gane e Lætitia Sadier ha interrotto infine un silenzio discografico durato 15 anni.
Lo stile rimane inconfondibile: avant-pop dal gusto retrofuturista imbastito con vocabolario sofisticato e accento engagé.
8. Los Thuthanaka, Los Thuthanaka (autoproduzione)
L’avventuroso esperimento di osmosi tra folklore andino e rumorismo digitale condotto dalla boliviana Chuquimamani-Condori – appena insignita del Leone d’Argento alla Biennale Musica di Venezia – insieme al fratello Joshua Chuquimia Crampton: un vertiginoso caleidoscopio culturale.
9. Rafael Toral, Traveling Light (Drag City)
Presentato in anteprima mondiale alla Biennale Musica, il disco propone sei standard del repertorio jazzistico trasfigurati in forme astratte: può sembrare ambient ma non lo è affatto.
Il musicista portoghese corona così un percorso trentennale di ricerca sonora.
10. Wednesday, Bleeds (Dead Oceans)
Attuale punta di diamante dell’indie rock d’oltreoceano, il quintetto della North Carolina guidato dalla cantante e chitarrista Karly Hartzman combina post punk e tradizione rurale descrivendo un’America viscerale e psicotica con qualità narrative da “gotico sudista”.