Lux, il miracolo di Rosalía
Il nuovo lavoro dell’artista catalana sfida la complessità del mondo
10 novembre 2025 • 3 minuti di lettura
Rosalía
Lux
Lux di Rosalía è il disco del momento: tutti ne parlano, più o meno a ragion veduta.
Interessante capirne il perché. A un certo punto, durante “La Yugular”, Rosalía canta: “Io sto nel mondo e il mondo sta in me”. Ne accetta dunque la complessità e in un certo senso intende incarnarla.
Perciò nei testi impiega 13 (!) lingue differenti: ad esempio spagnolo, tedesco e inglese in “Berghain”, brano intitolato al celebre club berlinese e nobilitato dai cammei di Björk, che invoca l’“intervento divino”, e Yves Tumor in modalità Mike Tyson (“Ti fotterò finché non mi amerai”).
Clamoroso biglietto da visita dell’album, in funambolico equilibrio fra kitsch e grandeur, con archi in fuga, cori tipo Carmina Burana e gorgheggi da soprano: totalmente diverso da quanto fatto in precedenza dall’artista catalana.
E tuttavia niente del passato viene rinnegato, anzi: il flamenco riformato degli esordi e la vibrazione urban di Motomami diventano affluenti del nuovo corso, incanalato in direzione operistica dalla suddivisione in quattro movimenti e incorniciato in dimensione “classica” dalla London Symphony Orchestra diretta dall’islandese Daniel Bjarnason.
Tutto ciò accade senza alcuna prosopopea, con disarmante disinvoltura: nulla suona forzato o artefatto. Allo stesso modo, Rosalía concilia sacro e profano, reggendo la tensione fra trascendenza e carnalità espressa dalla foto di copertina, dov’è ritratta da ancella alla Margaret Atwood imprigionata in una camicia di forza.
Dichiarata fonte d’ispirazione è un Pantheon popolato da figure del misticismo femminile: la sua omonima santa patrona di Palermo (evocata in “Focu ‘ranni”, “grande fuoco” in dialetto siciliano), la maestra taoista cinese Sun Bu’er (che abita “Novia Robot” insieme alla biblica Miriam, da cui versi in mandarino ed ebraico) e Giovanna d’Arco (nell’eloquente “Jeanne”, “Dico addio, mi affido al mio Dio, ai suoi desideri”, scritta con il contributo francofono di Charlotte Gainsbourg).
Altrettanto rilevante è però il vissuto personale, fra “sesso, violenza e pneumatici”, recita l’intestazione dell’episodio iniziale, preludio al giro del mondo in 80 emozioni affrontato in “Reliquia”: “Io che ho perso le mani a Jerez e gli occhi a Roma, sono cresciuta e ho imparato la sfrontatezza da qualche parte a Barcellona, ho perso la lingua a Parigi, il tempo a Los Angeles, i tacchi a Milano, il sorriso nel Regno Unito”, prima del delirio hyperpop conclusivo al quale – immaginiamo – non sia estraneo il fu Daft Punk Guy-Manuel de Homem-Christo, indicato fra gli autori.
In “Porcelana” si definisce “diva della malavita” (in spagnolo) e “regina del caos” (in giapponese), citando nel ritornello in latino il Vangelo di San Giovanni (“Io sono la luce del mondo”), e non esita a stigmatizzare un malcapitato ex – “Il rubacuori nazionale, un terrorista emotivo, il più grande disastro mondiale” – nell’invettiva a ritmo di valzer e al profumo di fado chiamata “La Perla”, premessa al regolamento di conti compiuto in “De Madrugá” (“Non cerco vendetta, è la vendetta che cerca me”, detto in ucraino). Il cammino è illuminato da bagliori di bellezza accecante: l’”avant-pop” in purezza di “Divinize”, la pulsante sensualità di “Dios Es un Stalker” (“Non sono la sgualdrina di un momento, sono il labirinto da cui non puoi uscire”), il romanticismo struggente di “Sauvignon Blanc”, il pathos lirico di “Mio Cristo piange diamanti” (proprio così, in italiano: “Sei l’uragano più bello che io abbia mai visto”), fino al solenne canto funebre per sé stessa intonato all’epilogo in “Magnolias” (“Vengo dalle stelle, ma oggi mi tramuto in polvere per tornare da loro”).
In Lux Rosalía riesce a non farsi soverchiare dall’ambizione concettuale, governando con mano ferma la varietà estrema della tavolozza musicale ed evitando di rendere Babele il sovrapporsi dei linguaggi. Un miracolo, praticamente.