L’avant-pop surreale di Juana Molina
Doga è il nuovo disco dell’artista argentina dopo otto anni di silenzio
28 novembre 2025 • 3 minuti di lettura
Juana Molina
Doga
Dopo otto anni di assenza, torna a farsi viva con Doga Juana Molina: 64enne artista di Buenos Aires dall’estro sfuggente, affine ad altre atipiche intelligenze femminili quali Cate Le Bon e Jenny Hval.
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Il lungo silenzio denuncia la complessa lavorazione del disco, avviata registrando le improvvisazioni da lei compiute insieme al connazionale Odín Schwartz manovrando sintetizzatori analogici e sequencer: una caterva di materiale talmente ingente che per venirne a capo si è reso necessario lo sguardo esterno del produttore Emilio Haro.
Il risultato è una strana creatura frutto di simbiosi fra gusto latino e avant-garde: ecco ad esempio “Siestas Ahi”, briosa filastrocca sull’innamoramento (“Mi sono sciolta quando finalmente mi hai baciata, sono venuta qui perché mi portassi via, girovagando tenue e stordita, è come volare, leggera e rosa”), oppure “La Paradoja”, dove il paradosso del titolo allude viceversa all’incompatibilità di coppia (“Tu e io, il cane e il gatto” e in linguaggio metaforico: “Il profumo del narciso mi appesantisce la giornata, preferisco andare in giardino a proiettare diapositive”), espressa dentro un fosco groove di scuola Suicide.
Sulla medesima falsariga si sviluppa l’elegante “Caravanas”, giovandosi tuttavia di un’orchestrazione arricchita dagli strumentisti – fra i tanti, l’arpista Sarah Page – messi a disposizione dalla cantautrice canadese Feist, dichiarata estimatrice della collega argentina, apprezzabile anche in “Va Rara”, astratto madrigale dal tono confessionale: “La storia che ho raccontato l’ho rubata da un libro di incantesimi”, rivela prima di soccombere all’autocritica (“Scrivo versi insignificanti”) e manifestare problemi d’identità (“Ho cercato il mio nome nell’alfabeto, non ho trovato nemmeno l’iniziale”).
In termini narrativi l’album ondeggia fra il puro nonsense dell’iniziale “Uno Es Arbol”, che avviluppato in un’enigmatica architettura sonora cantilena “Uno è albero, uno non è un albero addormentato, in disalbero”, e l’indagine spirituale svolta nell’ipnotico arredo minimalista di “Desinhumano” evocando Sun Wukong, figura mitologica della letteratura cinese (“E nascerà una scimmia dall’uovo di una pietra, figlio del sole, del cielo, della luna e della terra”).
In qualche modo la fisionomia di quel personaggio “disumano” si associa all’immagine di copertina, nella quale la protagonista è tramutata in cane mediante Photoshop: indizio dell’ironia che permea l’azione artistica di Juana Molina, in gioventù comica televisiva di successo, attività poi abbandonata per seguire il richiamo ancestrale della musica (il padre Horacio fu celebre cantante di tango).
Punteggiato da guizzi sorprendenti, tipo gli arpeggi dissonanti dedicati al “tordo indignato” di “Indignan a un Zorzal”, il crescendo catartico – chitarre come violini, organo elettrico, percussioni incalzanti: quasi una versione light degli Swans – di “Miro Todo” (con supplemento psichedelico nel testo: “Vedo strano, credo, ardo, aggiungo funghi, volo, mi spengo, nasco, rido”) e l’arzigogolata elettronica che asseconda vocalizzi non verbali nel conclusivo “Rina Soi”, Doga si distanza dal “realismo magico” del precedente Halo. La magia permane, ma diventa surrealista.