Satantango: le voci della centrale idroelettrica

Il sorprendente esordio del duo cremonese, fra cinefilia ed esistenzialismo

AC

20 novembre 2025 • 2 minuti di lettura

Satantango
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Dischi Sotterranei 2025

Lo ammetto: sono stato attratto dal nome Satantango, che tuttavia non è riferito al romanzo firmato nel 1985 dall’ungherese László Krasznahorkai, insignito il mese scorso del premio Nobel per la letteratura, bensì all’imponente film derivato da quel libro nel 1995 dal regista connazionale Béla Tarr.

Fra gli ascendenti del duo radicato nei sobborghi di Cremona, un posto preminente è occupato infatti dalla cinefilia: lo prova l’episodio conclusivo di questo album d’esordio, dedicato al “Cinema Tognazzi”, sala cittadina rievocata qui con nostalgia in un’incantevole ballata dall’evanescente consistenza acustica: “Hai lasciato qualcosa in quel cinema che ha chiuso anni fa, ci chiamavano i sognatori, guardavamo il mondo fuori”.

“Gioventù, amore e rabbia” porta invece lo stesso titolo italiano di un lungometraggio di Tony Richardson datato 1962 (in origine The Loneliness of the Long Distance Runner), opera gravitante nell’orbita degli Angry Young Men, i giovani artisti “arrabbiati” nell’Inghilterra dell’epoca, benché il testo menzioni piuttosto Mary Poppins (“Basta un poco di zucchero e la pillola va giù”) e Santa Maradona, quando poi altri passaggi ne localizzano la natura musicale: “Ti sei perso dentro la new wave” e “In fondo lo sai bene, boys don’t cry”, citando un vecchio classico dei Cure.

Dichiarata fonte d’ispirazione sono però le sonorità liminali tipiche di shoegaze e dream pop: la conferma sta fra la maestosa solennità di “Strada provinciale 6” e il pathos esistenzialista di “Permafrost”.

“Outsider lontani da tutto”, cresciuti “tra la nebbia e i prefabbricati”, Valentina Ottoboni e Gianmarco Soldi usano la musica per sottrarsi al ristagno della Bassa Padana: “Parliamo della provincia e di come si vive ai margini, in una terra isolata e a suo modo desolata, dell’amore/odio per questi posti in cui non c’è nulla ma a cui siamo affezionati perché sono casa”.

A rappresentarla iconograficamente è l’immagine di copertina, raffigurante una centrale idroelettrica di zona, mentre allude a un cascinale nei dintorni “Villa Alluvioni”, luogo adatto “per stare come le termiti sugli argini”. Fra ciminiere, coincidenze perse, un’Italia che non perdona, auto in fiamme sul guardrail e l’Hindenburg che brucia, la scrittura è lineare ma evocativa ed efficace, ad esempio in “9.11”, dove la memoria di quel giorno tragico riaffiora in superficie adesso, nei “ruggenti anni Venti”: “Ma ti ricordi l’11 settembre, mia madre che piangeva e io non capivo niente”, canta in atmosfera narcotica l’ammaliante voce femminile.

È il convincente brano d’apertura di un disco confezionato in ambiente domestico, snello nella struttura – sei canzoni e un paio d’interludi strumentali in nemmeno mezz’ora – eppure denso di contenuto: nulla di nuovo, né particolarmente originale, ma fatto benissimo. Una piacevole sorpresa.