Cate Le Bon, canzoni per la fine di un amore

In Michelangelo Dying l’artista gallese tramuta il dolore in bellezza

AC

26 settembre 2025 • 2 minuti di lettura

Michelangelo Dying
Michelangelo Dying

Cate Le Bon

Michelangelo Dying

Mexican Summer 2025

Affascinati dal suo estro elusivo, seguiamo con puntiglio l’avventura artistica di Cate Timothy, rinominatasi vezzosamente Cate Le Bon: una delle intelligenze musicali più ineffabili nel panorama attuale, emissaria di una visione aristocratica del pop all’incrocio fra Laurie Anderson e gli Stereolab.

Questa volta, addirittura, siamo costretti a occuparci impudentemente degli affari suoi: il nuovo album Michelangelo Dying, settimo in carriera, deriva infatti dall’impulso emotivo dovuto alla fine di una relazione. È stata lei stessa a preannunciarne la natura: “La rottura è sempre un'amputazione che non vorresti subire, ma sai che ti salverà”, ha spiegato mesi fa a “The Guardian”, raccontando di essersi sottratta “alle fauci di un amore totalizzante”. Un taglio netto, insomma, anche alla capigliatura.

I testi delle canzoni sono dunque più espliciti del solito: “Ecco come ci lasciamo, io sono alle corde, tu cavalchi l’onda”, nell’astratto ambiente sonoro di “Pieces of My Heart”, oppure “Faccio discorsi invidiosi, mi spezzo il cuore, prendo in giro l’amore e la vita”, nel mesto madrigale di compleanno “Is It Worth It (Happy Birthday)?”.

Il Michelangelo citato nel titolo del disco muore circonfuso dell’atmosfera eterea di “Love Unrehearsed”, dove contempliamo il “volto di marmo” di una rivale che “dorme come un sasso”: “Sei così crudele che vengo travolta dal tuo amore improvvisato”, l’accusa rivolta a chi la tradisce. E in “About Time” ammette con grazia malinconica: “Sono un po’ turbata, ancora non riesco ad accettarlo”.

Il pathos narrativo non offusca affatto la lucidità creativa: Cate Le Bon canta, suona (chitarre, basso, sintetizzatori) e produce (insieme al californiano Samur Khouja), ricorrendo per il resto a collaboratori di fiducia, tra cui spicca l’ubiqua Valentina Magaletti, incaricata della propulsione ritmica. La tavolozza espressiva è caleidoscopica: l’iniziale “Jerome” mostra venature psichedeliche, “Mothers of Riches” rivela ascendenze prog, “Body As a River” è una confessione intima (“Il mio corpo come un fiume che si sta prosciugando, sto malissimo”) scandita da un arpeggio sintetico e la danza dell’abbandono inscenata durante l’eloquente “Heaven Is No Feeling” ha un fragrante retrogusto anni Ottanta.

Apice dell’opera è tuttavia “Ride”, avveniristica elegia blues nella quale compare Sua Eminenza John Cale, come lei nativo del Galles: fa un certo effetto ascoltarlo intonare in controcanto “è la mia ultima corsa”. Subito dopo arriva l’epilogo, che ciondola con svagatezza esotica prima di liquefarsi nell’indolenza: “I Know What’s Nice” è il ricettacolo in cui confluiscono amarezza (“Sto dalla parte sbagliata del paradiso”), tentennamenti (“Vivrei sulle sue labbra, mi piace stare lì, mi arrangerei sulla corda, mi perdo nel suo sorriso”), ribellione (“Ora sono più vecchia di Lady Diana, tendo le braccia, inizio un combattimento”) e rassegnazione (“Sempre a fine dicembre, lascio qualcuno che amo).

Conclusione degna di un album intenso ma leggero: frutto di un’alchimia capace di tramutare il dolore in bellezza.