Fortunato Ortombina, il "modello Fenice" un anno dopo

Intervista al sovrintendente del Teatro La Fenice su Verdi, Myung Whun Chung e su cosa significa fare opera oggi

Teatro La Fenice - Stagione 2018  - Fortunato Ortombina
Fortunato Ortombina con Mariella Devia
Articolo
classica

«È già passato già un anno dal nostro ultimo incontro?», mi chiede sorpreso Fortunato Ortombina (qui l'intervista), accogliendomi nel suo ufficio di sovrintendente del Teatro La Fenice alla fine di un percorso fra cunicoli e scalette nel ventre del teatro.

Grande successo (con qualche dissenso per la regia) per il Macbeth di Damiano Michieletto che ha inaugurato la nuova stagione del Teatro La Fenice

È anche passato un anno dalla sua nomina a sovrintendente, promosso sul campo per i meriti di aver imposto un modello, il “modello Fenice”, che comincia a fare proseliti nel resto della penisola, come lui stesso ci tiene a dire con una certa soddisfazione. «In effetti, oggi vedo con piacere che altri teatri in Italia stanno adottando modelli simili: non sono affatto invidioso, anzi sono felice! Le cose vanno bene quando vanno bene per tutti e certamente a nessuno fa piacere vedere un teatro che chiude. Certo, il successo di molti significa lottare per spartirsi una torta che è sempre la stessa e che non aumenta. Però più vedo teatri in giro che credono nella musica, che esprimono amore per la musica come bene “di consumo” o meglio come servizio pubblico per la società».

Ovviamente, come per ogni altro modello di business aggiustamenti nelle strategie sono sempre necessari.

«Vero! Nemmeno la Coca Cola è andata avanti con lo stesso prodotto in tutti questi decenni: magari si cambia il tipo di lattina piuttosto che la quantità di zucchero che c’è dentro la bevanda, ma qualcosa occorre cambiare per continuare a vendere il prodotto». 

Un po’ strano parlare di un’impresa culturale come di una fabbrica di beni di consumo, no? 

«No, perché le due dimensioni, quella artistica e quella imprenditoriale, purtroppo o per fortuna vivono e devono vivere l’una dell’altra. Se c’è una possibilità di sopravvivere al passaggio dei tempi è proprio nella capacità di interagire con la società, che non vuol dire soltanto presentare produzioni operistiche ma anche stabilire partnership di natura economica, collaborazioni in un contesto produttivo. Non dobbiamo avere la presunzione che tutto sia per sempre e che duri in eterno. La capacità di attirare risorse private non è solo positivo perché in questo modo si attingono meno risorse dalle casse pubbliche (e i governi, di qualsiasi colore, non possono che esserne contenti), ma anche perché si riesce a rendere un servizio di livello qualitativo elevato alla società. Che poi è la vera ragione dell’esistenza dei teatri».

«Le due dimensioni, quella artistica e quella imprenditoriale, purtroppo o per fortuna vivono e devono vivere l’una dell’altra».

«Mi piace sempre ricordare che, quando tutti andavano a omaggiare l’anziano Verdi per il Falstaff, lui liquidava i complimenti e chiedeva “ditemi piuttosto come va il botteghino!”. A Verdi interessava l’opera come genere di spettacolo o forma d’arte ma anche come fonte di lavoro».

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Il Macbeth di Damiano Michieletto al Teatro La Fenice (foto di Michele Crosera) 

Parliamo di musica e partiamo proprio da Verdi: sia la stagione sinfonica che quella operistiche si sono aperte con due suoi capolavori, la Messa da Requiem e il Macbeth, entrambi diretti da Myung-Whun Chung, presenza molto assidua nei suoi cartelloni. 

«Verdi innanzitutto! È una mia convinzione che in un teatro italiano le opere di Verdi debbano essere il cardine della programmazione. Quanto a Chung, il rapporto è nato già negli anni in cui lavoravo alla Scala e quando mi sono trasferito a Venezia, Chung si è mostrato disponibile a venire in questo teatro e a iniziare un filone di lavoro che è stato verdiano da subito. Abbiamo iniziato nel 2009 con La traviata, e l’anno successivo proprio con lui abbiamo inaugurato la prima cellula del nostro modello produttivo con l’avvicendamento di due spettacoli a sere alterne, che erano un nuovo Rigoletto e ancora Traviata. Poi sono venuti l’Otello (che tornerà a dirigere in questa stagione), il Simon Boccanegra, il Ballo in maschera. Tutte opere che Chung aveva già diretto nella sua carriera. Quest’anno sono particolarmente grato perché a 65 anni ha accettato di studiare e dirigere per la prima volta il Macbeth proprio per La Fenice». 

Se si pensa a Chung e alla sua carriera, la definizione di direttore verdiano non sembra la più ovvia. Cosa le piace del Verdi di Chung? 

«Quando lo invitai a Milano nel 2006 a fare la Butterfly, Chung non aveva mai diretto alla Scala opere italiane. Ricordo la Ledi Makbet di Šostakovič nel 1992 o la Salome nel 1995, ad esempio. Ricordo che alle prime prove c’era qualche professore d’orchestra che protestava dicendo che quello di Chung non era il vero Puccini. Li invitai a concedergli un po’ di tempo. Quando siamo andati in scena con la generale, sono venuti tutti da me a dirmi che quel Puccini era una rivelazione».

«Credo che Myung-Whun Chung vada considerato un direttore perfetto per la musica e l’opera italiana, e che si tratti del più grande interprete verdiano di oggi».

«Personalmente credo che il Maestro Chung vada considerato un direttore perfetto per la musica e l’opera italiana, e che si tratti del più grande interprete verdiano di oggi. È un’opinione personale ma credo che la sua consuetudine con il Novecento giochi un ruolo fondamentale. Dopo le esperienze verdiane giovanili (ricordo un suo Don Carlo a Bologna negli anni ’80 quando era già noto), l’avere diretto molta musica del Novecento ci restituisce un Chung interprete, che si avvicina a Verdi con occhio diverso che è quello della modernità del linguaggio verdiano in senso complessivo – quel linguaggio che fa di parola, scena e musica un testo. È come se Verdi e Chung si tendessero la mano con profonda intesa. La famosa essenzialità del linguaggio musicale e drammatico verdiano è teso alla contemporaneità. E poi ci sono anche i risultati: quando l’ho sentito dirigere le molte opere di Verdi in questo teatro, mi ha rivelato aspetti della musica verdiana mai sentiti così prima. Per questo non ho timore di dire che è l’interprete verdiano più grande al mondo». 

L’altra novità verdiana è il ripescaggio dopo decenni dell’Aida con le scene di Mario Ceroli: perché non puntare su una nuova produzione? 

«Una caratteristica del “modello Fenice” è anche non pensare a una produzione come a un evento unico ma con un’idea di ripresa. In questo senso, lo spettacolo è una forma di investimento per la diffusione e la conoscenza di un titolo, di un autore, di uno stile, ma anche di approfondimento e quindi di fidelizzazione del nostro pubblico. Da questo punto di vista, questa Aida ha un grande valore impresariale, perché ci consentirà di valorizzare un pezzo del patrimonio di questo teatro e per di più nella linea di “modernità” che la Fenice per sua natura deve praticare. Ciò detto, quella di Ceroli e Bolognini, che purtroppo ci ha lasciato, è una produzione ancora molto valida che verrà messa in valore forse anche più che allora grazie alla nuova tecnologia di cui dispone il palcoscenico della Fenice (Ceroli sarà presente al rimontaggio delle sue scene). Musicalmente sarà ovviamente un’Aida tutta nuova a cominciare dal cast che vedrà il debutto di Veronica Simeoni come Amneris, della giovane Roberta Mantegna come Aida e il debutto italiano, dopo Salisburgo, di Francesco Meli come Radames. Con l’Arena di Verona poco lontana da qua e la sua tradizione, la novità è riportare Aida in uno spazio chiuso come alle sue origini. Quella di Aida è una delle partiture dal carattere più intimo che Verdi abbia mai composto e il Teatro La Fenice ha la dimensione e l’acustica ideale per farla com’è scritta, una delle sfide più alte che si possano immaginare».

«Quella di Aida è una delle partiture dal carattere più intimo che Verdi abbia mai composto e il Teatro La Fenice ha la dimensione e l’acustica ideale per farla com’è scritta, una delle sfide più alte che si possano immaginare».

«Infine, mi piace sottolineare che, affidando nel 1978 le scene a Mario Ceroli, artista di profilo internazionale, in un certo senso si è precorsa la collaborazione con la Biennale Arte, che abbiamo intrapreso qualche stagione fa e continueremo con Turandot in questa stagione. Non a caso presenteremo queste due opere in alternanza sul palcoscenico della Fenice nel prossimo maggio».

Aida Fenice scenografia Mario Ceroli
L'Aida del 1978 con le scenografie di Mario Ceroli

 Vuole dire qualcosa di più su questa nuova collaborazione con la Biennale Arte ma soprattutto sulla scarsa collaborazione con la Biennale Musica, un legame storico che si direbbe affievolito nelle ultime stagioni dopo i gloriosi Festival di Musica contemporanea dei decenni passati. Qualcosa in vista? 

«Per quanto riguarda La Fenice negli ultimi anni il dialogo c’è stato soprattutto con la Biennale Arte. Però anche con Ivan Fedele, il direttore del settore musica, c’è un ottimo rapporto e collaborazioni ci sono state e posso già anticipare che la collaborazione diventerà anche più visibile come è sempre stato in passato. Per quanto riguarda la Biennale Arte, in concomitanza con la 58a Esposizione Internazionale d’Arte che apre l’11 maggio, seguiremo la stessa formula produttiva della Madama Butterfly con scene e costumi di Mariko Mori e della Norma con regia, scene e costumi di Kara Walker, cioè per la nuova Turandot affideremo la produzione a un artista di livello internazionale che abbiamo scelto in un dialogo con la Biennale. Non posso ancora rivelare il nome, ma posso anticipare che a sviluppare il “concept” sarà una delle maggiori artiste del panorama dell’arte visiva mondiale e che sarà italiana. Per noi è un passo ulteriore per legare l’opera al contemporaneo, da sempre un approccio al quale molti compositori nel passato hanno dovuto rinunciare per motivi di censura (lo stesso Verdi proprio in questo teatro dovette rinunciare ai costumi contemporanei che avrebbe voluto per la sua Traviata pensata come specchio della società). Che la Biennale con il suo altissimo profilo internazionale nel campo delle arti visive, e non solo, si trovi proprio a Venezia la dice lunga sulla storia questa città e sulla sua forza: ciò che l’ha resa grande nei secoli è stato sempre il rapporto con la contemporaneità e la capacità di proiettarsi il più lontano possibile». 

Restiamo nel contemporaneo: dopo il grande successo di Aquagranda di Filippo Perocco, il Teatro La Fenice batte un po’ ritirata limitandosi a una produzione, che in questa stagione sarà Luci mie traditrici di Salvatore Sciarrino, dalla sua creazione a Schwetzingen nel 1998 è stata vista in mezzo mondo. 

«Non sono d’accordo. Nella stagione sinfonica abbiamo avuto una prima assoluta del giovane Simone Maccaglia, Broken Landscape, per orchestra sinfonica nella serie “Nuova musica alla Fenice” in collaborazione con gli Amici della Fenice, con cui collaboriamo dal 2011, all’interno della quale abbiamo prodotto nuovi pezzi di compositori come Silvia Colasanti, Orazio Sciortino, Mauro Lanza, Filippo Perocco e Fabio Vacchi per citarne solo alcuni. È vero che Luci mie traditrici non è un’opera nuova di Salvatore Sciarrino, ma a Venezia debutterà in una nuova versione, con un finale diverso, quasi un lieto fine. Sciarrino ha composto un madrigale nel quale tutti i personaggi tornano in scena, più o meno come nel finale di Don Giovanni». 

Dal contemporaneo all’antico: Vivaldi. Conferma il suo impegno a presentare un titolo a stagione? 

«Vista la collocazione del teatro e l’importanza della produzione musicale veneziana nello sviluppo della storia musicale nel nostro paese è quasi un obbligo. Oltre a Vivaldi, continueremo con Albinoni di cui, dopo la Zenobia regina de’ Palmireni della scorsa stagione, presenteremo La Statira e Pimpinone nell’ambito del progetto Opera Giovani in collaborazione con il Conservatorio Benedetto Marcello di Venezia, altra importante collaborazione con le istituzioni veneziane. Nel filone veneziano inserirei anche la Dorilla in Tempe che presentiamo dopo il grande successo dell’Orlando furioso della scorsa stagione che potrà ancora contare sulla competenza del maestro Diego Fasolis, che tornerà anche nella stagione 2019/20 per il Farnace, tappa fondamentale nel percorso artistico vivaldiano. Vivaldi lo faremo con l’Orchestra del Teatro La Fenice ma, grazie alla continuità della presenza del maestro Fasolis, proveremo gradualmente a volgere i nostri musicisti verso una prassi esecutiva storicamente informata. Come Teatro La Fenice, cercheremo in questo modo di riappropriarci di una figura fondamentale per la musica veneziana come quella di Antonio Vivaldi, attraverso un recupero che passa dalla prassi orchestrale ma anche dal virtuosismo spettacolare dei cantanti arrivando anche a toccare il piano drammaturgico e registico». 

Ha già citato la Biennale e il Conservatorio “Benedetto Marcello”, ma fra le vostre collaborazioni c’è anche quella di lunga data con l’Accademia di Belle Arti, con cui avete già realizzato molti progetti fra cui le farse giovanili rossiniane. Come prosegue la collaborazione in questa stagione? 

«Con l’allestimento in febbraio di due cantate giovanili mozartiane: il sogno di Scipione al Malibran e Il re pastore alla Fenice, che fra l’altro segneranno il debutto di Federico Maria Sardelli in teatro. Si tratta di due cantate e quindi il progetto ha anche un valore didattico poiché si tratta di sviluppare l’idea di regia come procedura e tecnica, il che dà il senso della collaborazione con l’Accademia. Abbiamo già comunque almeno un precedente, la Juditha Triumphans di Vivaldi, un oratorio che abbiamo allestito in forma scenica e il risultato è stato di grande impatto». 

Le novità nel cartellone della Fenice sono molte così come i titoli, 18 fra novità e riprese, caso unico in Italia, eppure le coproduzioni sono molto scarse, soprattutto con teatri non italiani. Troppo repertorio italiano? Allestimenti poco interessanti? 

«La scelta di titoli italiani sicuramente non taglia fuori dalle coproduzioni. Diciamo piuttosto che c’è uno stile che piace molto anche in Europa che passa in particolare attraverso alcuni registi, che se non sono coinvolti non c’è interesse da parte di possibili partner europei. Il discorso sarebbe lungo e solleva questioni importanti su cosa vuol dire fare opera oggi in Italia e fuori dall’Italia e, più in generale, cosa sia l’opera e cosa si fa dell’opera. Va detto però che, quando uno straniero viene alla Fenice, vuole comunque vedere uno spettacolo italiano».

«Detto questo alcune delle nostre produzioni girano, come il Così fan tutte di Damiano Michieletto che è andato a Bercellona o il suo Rake’s Progress che abbiamo realizzato con Lipsia, o il Simon Boccanegra con la regia e le scene di De Rosa che in questa stagione sarà al Mariinsky. Alcuni allestimenti li abbiamo presi da teatri europei, come la Carmen, che riprendiamo regolarmente, o il Tannhäuser entrambi con la regia di Calixto Bieito, quest’ultimo prodotto dall’Opera delle Fiandre e adesso in repertorio a Lipsia. Da parte nostra non ci sono sicuramente preclusioni e men che meno una volontà di autarchia. Anzi, io credo molto nelle coproduzioni come modo di condividere idee e anche modi di lavorare prima ancora che i costi. Certamente nelle coproduzioni dobbiamo sempre fare una valutazione seria dei costi: se da un lato le spese di produzione si riducono, va tenuto conto che trasportare le scene a Venezia ha un costo molto, molto, molto elevato. Da questo punto di vista Venezia è un po’ penalizzata». 

Il Teatro La Fenice non sembra nemmeno troppo interessato alle tournée, che sono eventi rarissimi. Si sta muovendo qualcosa? 

«Anche qui i costi non sono trascurabili. Comunque in ottobre il coro del Teatro è stato ospite al Konzerthaus di Berlino per la Messa da Requiem di Verdi diretta da Juraj Valčuha, un riconoscimento molto importante per il coro e per come si fa Verdi alla Fenice, soprattutto tenendo conto dell’elevata qualità musicale in Germania. Posso anticipare che stiamo lavorando per portare una nostra produzione del repertorio in tournée il prossimo anno in estremo Oriente ma per ora non posso dire di più». 

Un dettaglio fondamentale nella programmazione di un teatro secondo Ortombina? 

«La stagione deve essere concepita in maniera “accogliente”. Per noi italiani cultura significa soprattutto ritrovarsi e le istituzioni culturali come i teatri devono curare questo aspetto attraverso soprattutto la presenza di grandi classici nel cartellone. Mi piace pensare che chi viene alla Fenice è come se tornasse a casa e ritrovasse quei vecchi libri che magari non ha mai aperto. Tornare a casa come fosse parte della vita». 

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