Quel sottile velo fra i vivi e i morti del Macbeth di Michieletto 

Grande successo con qualche dissenso per la regia per l’opera verdiana che ha inaugurato la nuova stagione del Teatro La Fenice

Macbeth (Foto Michele Crosera)
Macbeth (Foto Michele Crosera)
Recensione
classica
Venezia, Teatro La Fenice
Macbeth 
23 Novembre 2018 - 01 Dicembre 2018

Era un muro massiccio e mobilissimo il simbolo della separazione fra il mondo di vivi e quello dei morti nell’allestimento di Luciano Damiani di trent’anni fa per il Macbeth firmato da Luca Ronconi, l’ultimo visto alla Fenice prima di quello che ha aperto con successo (e qualche vivace contestazione al team registico) la nuova stagione della Fenice. Trent’anni dopo quel muro si è assottigliato e quasi smaterializzato in grandi fogli di plastica semitrasparente, leggeri e aerei, che, come un diaframma quasi immateriale, segnano appena la soglia fra i vivi e i morti. Non è per niente cruento ma sottilmente inquietante questo nuovo Macbeth firmato da Damiano Michieletto per l’opera più cruenta e spietata di Verdi: sulla scena – una scatola nera chiusa fra due griglie di tubi luminescenti di gelida eleganza e di grande forza iconica di Paolo Fantin illuminata superbamente dalle luci glaciali di Fabio Barettin–  coesistono vivi e morti, e la morte non strazia i corpi ma li segna con un tratto di vernice bianca o ne ricopre i corpi con un sacco di plastica trasparente. Viene la morte e ha l’aspetto innocente dell’immagine di una bambina vestita di rosso con un palloncino trasparente, un po’ come quella felliniana di Toby Dammit, che, con un seguito di streghe-zombie prive di volto, annuncia l’ascesa sanguinosa di Macbeth e ne anticipano la tragica caduta. 

C’è molto del mondo infantile in questo Macbeth privo di orpelli e di epos come i costumi di foggia contemporanea di Carla Teti. È seduta accanto a una cesta di giocattoli Lady quando riceve la lettera del marito (maternità frustrata motore della sua ferocia?), i Macduffs arrivano coi figli al seguito di re Duncan come Banco con il suo Fleanzio in triciclo, da cui una stirpe di re sarà generata, ed è una pioggia di altalene rosse sospese su lunghissime catene metalliche la foresta di Birnam che segna la fine di Macbeth in una marcante (e disturbante) traslazione di senso e anticipa l’ineluttabile ripetersi del gioco dei potenti con quel Malcom incoronato e issato su una di esse sopra la folla delle streghe mentre copiosa vernice bianca cola sulla superficie nera del fondale (straordinaria la sintonia col finale sulla cui sequenza di tonalità maggiori si proietta, inquietante, l’ombra di quel la minore). 

 

Nero è anche il colore che Myung-Whun Chung sembra scegliere per questo suo primo Macbeth e che chiede all’Orchestra del Teatro La Fenice, impegnata in una grande prova e sempre più in sintonia con il direttore coreano. Chung privilegia i colori scuri, notturni dando evidenza plastica agli impasti densi degli ottoni e alle tremende percussioni, vere e proprie scosse telluriche che scuotono e minacciosamente il desolato mondo dei vivi. E sceglie spesso un tono dimesso e con i colori lividi della luce lunare per i passaggi meno legati alle convenzioni melodrammatiche come per la scena delle apparizioni o del sonnambulismo di Lady o per la frammentaria e rapidissima sequenza di eventi del finale, ma non toglie ossigeno al canto nei grandi passaggi corali. Una prova di grande e meditata maturità nel complesso, sostenuta anche da un cast dalle solide e provate capacità professionali, che Luca Salsi conferma in un ruolo frequentato già in numerosi palcoscenici internazionali. Chiamata all’ultimo a sostituire Tatjana Serian inizialmente prevista, Victoria Yeo ha proprio quella “figura bella, buona” che Verdi non avrebbe voluto per la Tadolini, la prima Lady, ma la voce, e non certo una voce “aspra, soffocata, cupa” ma tagliente come lama, un po’ debole negli ensemble ma molto espressiva e soprattutto scenicamente credibile e aderente al disegno registico. Fra gli altri, Simon Lim è un Banco ben disegnato ma di timbro un po’ chiaro, Stefano Secco un Macduff radioso e Marcello Nardis un Malcom di bella prestanza. Completavano degnamente la locandina Elisabetta Martorana (Dama), Armando Gabba (Il medico), Antonio Casagrande (un domestico), Emanuele Pedrini (Un sicario), Umberto Imbrenda (Un araldo) e il superlativo Coro del Teatro La Fenice preparato da Claudio Marino Moretti. 

Pubblico in gran spolvero e generoso di applausi a tutti gli interpreti, Luca Salsi in testa. Ovazioni per Chung e più di un sonoro dissenso al team registico. 

 

 

 

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