Tempo scaduto per questa Biennale Musica? 

Perplessità per molti dei lavori di teatro musicale presentati nella rassegna veneziana curata da Ivan Fedele 

Maria de Buenos Aires
Maria de Buenos Aires
Recensione
classica
Venezia
Biennale Musica 2018 
02 Ottobre 2018 - 07 Ottobre 2018

Nel suo pezzo sull’apertura “zappiana” della Biennale Musica, Enrico Bettinello (si) chiedeva: Wow? Bah? Era ora? Tempo scaduto? Le stesse domande valgono per molti degli eventi in mostra nell’appena concluso 62° Festival di Musica Contemporanea. Nonostante le ambizioni dichiarate dal direttore Ivan Fedele di proporre un festival aperto a una “più attuale interpretazione del concetto di contemporaneità” attraverso le contaminazioni e le reciproche influenze musicali tra Europa e Americhe, dove storicamente la divisione fra generi (preoccupazione molto europea, fra l’altro) ha una rilevanza molto minore, nelle scelte pratiche è sembrato poco convincente. Se un festival come questo ha ancora un senso è o dovrebbe essere per la capacità di indicare nuove direzioni e magari preoccuparsi meno di leoni alati metallici e allori, che necessariamente obbligano a guardare piuttosto al passato anche recente. 

Quanto alle proposte, se per Zappa la domanda era legittima, per Maria de Buenos Aires è retorica: tempo scaduto? Intendiamoci, non che questa opera-tango di uno dei patriarchi del tango coniugato con la tradizione classica occidentale non sia un capolavoro, ma, con cinquant’anni alle spalle dal suo debutto e un numero elevatissimo di rappresentazioni nelle scene di mezzo mondo, ha ancora senso definire il suo autore Astor Piazzolla come un eretico? A noi pare sinceramente (e pateticamente) fuori tempo massimo, specie in un forum della contemporaneità che di veri eretici del loro tempo. Né ci sembra che una personalità come quella di Astor Piazzolla rappresenti davvero le nuove tendenze di una scena scena culturale e musicale vivace come quella argentina. E con questo senza voler togliere nulla alla riuscita versione presentata a Venezia affidata al bandoneonista Marcelo Nisman che guida con competenza l’ensemble strumentale, ai due cantanti Victoire Brunel e Rubén Peloni e soprattutto a Daniel Bonilla-Torres che intona con solenne gravità il testo di Horacio Ferrer sulla mesta vicenda della sfortunata operaia poi cantante di tango “nata in un giorno in cui Dio era ubriaco.” 

Anche dall’Argentina, ma con solide radici francesi, arriva il quarantatreenne Daniel Rivas, premiato con il Leone d’Argento nel corso di una breve (e mestissima) cerimonia officiata dal Presidente della Biennale Paolo Baratta e da Ivan Fedele. La motivazione insiste piuttosto sull’esperienza musicale di Rivas che “trae origine dal jazz, dal rock e dall’improvvisazione” e che oggi “si muove nel segno di una brillante e disinvolta originalità tra sperimentazione digitale, acustica ed elettronica.” Aliados è un lavoro di Rivas del 2013 e dopo la creazione a Parigi e varie piazze come Roma e Strasburgo, arriva a Venezia sulla scena del Teatro Goldoni (era ora?) come saggio uno della produzione del compositore laureato dalla Biennale. Più che teatro politico come insiste nelle sue intenzioni, quell’incontro a Londra nel 1999 fra un rimbambito e impasticcato Augusto Pinochet e una Margareth Thatcher già seriamente obnubilata dall’Alzheimer al centro del lavoro sembra piuttosto un memento mori o magari una triste allegoria, non priva di humor nero (questo sì, molto argentino), sulla caducità del potere. Alleati nell’eroica guerra a difesa delle Isole Malvinas nel 1982 contro i generali argentini, responsabili dell’insensata operazione guidata da insensati velleitarismi nazionalistici, questi due relitti umani (Pinochet in completo giallo su sedia a rotelle è Lionel Peintre e la Thatcher stretta in un tailleur verde militare è Nora Petročenko), accuditi da un solerte attendente (il baritono Thill Mantero) e lei da un’attenta infermiera (la soprano Mélanie Boisvert), si incontrano anni dopo, si scambiano doni (le rispettive e autocelebrative autobiografie) ma sono ormai del tutto incapaci di articolare una parola di umanità. La vittima ignota di ogni conflitto (Richard Dubelski) apre e chiude ricordando, fra immagini storiche della eroica operazione, l’orrore eterno e senza senso della guerra. La realizzazione scenica di Antoine Gindt, con le proiezioni live su grande schermo come da “instant opera” televisiva, trova un prudente equilibrio fra impegno “politico” e ghigno grottesco, che segue le umorali virate della partitura di Rivas in un citazionismo beffardo fatto anche di tanghi e marce militari eseguita dall’Ensemble Multilatérale diretto da Léo Warynski con le extension elettroniche curate da Robin Meier dell’IRCAM. 

Assolutamente europee, o meglio mediterranee, le quattro esili operine scelte con monocratico e insindacabile giudizio da Ivan Fedele per il programma della Biennale College. El sueño de Dalí en una noche de Picasso, creazione a quattro mani e due teste dei fratelli Ignacio e Jorge Ferrando, è un ottimo saggio di gusto musicale passatista e di provincialismo iberico che di surrealista ha solo l’ennesima stanca riproposizione di soggetti di nessuna rilevanza contemporanea.

Di più fresca ispirazione invece Rodi, rodi! Morsicchia! La casina chi rosicchia? con la musica non priva di interesse di Sofia Avramidou e uno spiritosamente croccante (è il caso di dirlo) libretto di Cecilia D’Amico, che propone una variazione televisivamente contemporanea, ma nemmeno troppo, della favola di Hänsel e Gretel dove la strega è una anchorwoman di fastidiosa insipienza. Dove volesse andare a parare Trístrofa ci auguriamo lo sappiano almeno la compositrice Elisa Corpolongo e la librettista Ilaria Diotallevi, giacché è facilissimo smarrirsi nel labirinto di giochi di parole inconcludenti e personaggi del tutto inconsistenti come l’inesistente plot di questo indecifrabile atto unico. Chissà chi la spunterebbe in una ideale competizione di gusto con il recente match corean-statunitense su chi ce l’abbia più grande il pulsante? Forse Push! del compositore Alvise Zambon e della librettista Maria Guzzon qualche chance ce l’avrebbe, più che per la scrittura musicale che non disdegna di flirtare con il facile, per il tono allusivamente sessuale dello scontro “politico” fra Mr. White e Mr. Black che poi diventa un informato catalogo farmacologico quando si scopre che i due, quando son già pronti a spingere i rispettivi bottoni, fortunatamente per il mondo si scopre essere pazienti di un manicomio (e anche su questo la realtà vince poiché, si sa, i veri pazzi sono a piede libero e magari acclamati da maggioranze plaudenti). 

Sarebbe ingiusto infierire troppo sui quattro giovani compositori, che comunque dimostrano nel complesso una certa professionalità, così come professionali e curati sono i quattro graziosi spettacoli confezionati dalle due giovanissime registe Ilaria De Lelio (per la prima e la terza) e Katrin Hammerl (per la seconda e la quarta) con il coinvolgimento di team altrettanto giovani e soprattutto la realizzazione musicale dei bravissimi strumentisti dell’Ensemble Novecento dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia diretti da Francesco Bossaglia. Il problema semmai ci sembra piuttosto nel manico, il manico essendo una formula che sembra accontentarsi di offrire un palcoscenico a progetti già largamente compiuti (e dall’incertissimo futuro) senza cercare di far nascere i capolavori di domani.

Non resta che augurarsi per una Biennale Musica ridotta a questo il tempo sia davvero scaduto. 

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