Frank Zappa alla Biennale Musica. Tempo scaduto?
The Yellow Shark con David Moss e Tonino Battista sul podio: come è invecchiata la musica di Zappa? E che senso ha farla, oggi, a Venezia?
Frank Zappa alla Biennale Musica.Wow? Bah? Era ora? Tempo scaduto?
Prima di (forse) rispondere, procediamo con ordine. Metabolizzata la defezione del Leone d’oro Keith Jarrett, weekend di apertura di festival con gli occhi puntati sulla riproposizione delle musiche che andavano a costituire il progetto The Yellow Shark, ultimo pubblicato in vita a nome di Zappa (era il 1993).
All’epoca commissionato dal Festival di Francoforte per l’Ensemble Modern diretto da Peter Rundel – che tra l’altro tra pochi giorni dirigerà lo stesso programma a Roma e Reggio Emilia con musicisti dell’Accademia della Scala – il lavoro raccoglie una serie di composizioni di diversa origine e datazione, una sorta di portfolio del mondo zappiano, in cui si ritrovano arrangiamenti di materiali già noti (“Uncle Meat”, “Be Bop Tango”, la conclusiva “G-Spot Tornado” che nasceva per Synclavier…) e alcune composizioni nuove.
Progetto dalla genesi un po’ travagliata a causa delle condizioni di salute di Zappa, salutato all’epoca da un certo entusiasmo cui non era probabilmente estranea la miscela tra euforia da guilty pleasure del rigido mondo contemporaneo e soddisfazione per il riconoscimento per la “statura” compositiva del musicista di Baltimora, The Yellow Shark si ripresenta così al pubblico della città che ha ispirato uno dei frammenti inediti, “Questi cazzi di piccione” (sic), il cui ritmo ticchettante sugli archi riproduceva quello delle zampe degli uccelli che tanto avevano colpito (in tutti i sensi) Zappa nella città lagunare.
La serata al Teatro Goldoni è stata bella e partecipata: sul palco l’Ensemble Auditorium Parco della Musica si diverte e risponde bene all’estro del direttore Tonino Battista, affiancato nei pezzi vocali e performativi da un fuoriclasse come David Moss.
Al cantante sono affidati “Food Gathering In Post-Industrial America” e una “Welcome To The United States” in cui la lettura delle domande della scheda da compilare per entrare negli USA dovrebbe fungere da volano per una teatrale messa alla berlina – tipicamente zappiana – dell’ottusità burocratica a stelle e strisce. Pezzo a mio avviso un po’ invecchiato, non solo perché dopo l’11 settembre e Trump la cosa ha travalicato i limiti della dumbness, ma anche perché performativamente (forse complice anche il non troppo spazio a disposizione sul palco) è sembrato appartenere davvero a tempi ormai antologizzati in una puntata di Techetecheté.
Musicalmente funzionano bene i pezzi in cui l’orchestra può stendere i propri panni sul filo lucente che unisce Varése, Stravinskij e Zappa: “Dog Breath Variations/Uncle Meat”, “Outrage At Valdez”, la già citata ed eccitata “G-Spot Tornado”, ripresa anche come bis, con Moss in platea a far ballare il pubblico. Ma colpisce anche “Ruth Is Sleeping” per due pianoforti, originariamente composta per Synclavier.
Quindi? Scalpiterete a questo punto…
Wow? Bah? Era ora? Tempo scaduto?
Un po’ tutte queste, probabilmente.
Se già all’epoca dell’originale The Yellow Shark (e qualche anno prima, con l’uscita del disco zappiano diretto da Pierre Boulez), ci si era chiesti quanto “stretto” (o largo) potesse andare a Zappa il vestito ben stirato del mondo musicale più accademico, la domanda rimane in fondo attuale e senza facili risposte.
La constatazione che Zappa sia ricordato come uno dei grandi musicisti del Novecento (un musicista di statura e rilevanza culturale complessivamente ben maggiore di quella di molti compositori che affollano i programmi dei Festival di contemporanea, per essere chiari) e che l’avanguardia novecentesca abbia giocato un ruolo importante nel suo ampio mondo espressivo, continua a scontrarsi con il fatto che in fondo il musicista americano ha sempre deliberatamente continuato a spostare i punti di riferimento, a leggere il proprio tempo con una inventiva e un’ironia che solo l’ipercinetica commistione dei registri gli consentiva.
Difficile quindi, al di là del valore del concerto o dell’idea di Biennale di proporlo sia chiaro, sempre maledettamente difficile vederlo omaggiato retrospettivamente in un contesto aduso a altre formalizzazioni.
E ancora: il fatto che, nel 2018, nel venticinquennale dalla morte e con un corpus ipertrofico di musica meravigliosa (anche ben migliore di quella di The Yellow Shark) cui attingere, l’accesso al mondo zappiano debba passare ancora inevitabilmente attraverso quella “canonizzazione” che allora fu il progetto con l’Ensemble Modern e non da altre porte più scomode e pungenti, beh, qualcosa dovrebbe raccontarcelo, no?
Cosa è invecchiato nella musica di Zappa? Cosa invece del suo mondo espressivo riverbera ancora nella musica e nella cultura del presente? In che modo una vicenda in fondo legata indissolubilmente alla genialità irripetibile e irrequieta di un individuo può diventare repertorio?
Lo so, vi aspettavate delle risposte e invece sto rilanciando con altre domande… Perché ieri sera sarei dovuto uscire raggiante dal teatro invece non ero così raggiante e avrei avuto piuttosto una gran voglia di discutere con un pensatore come Mark Fisher di quanto uncanny/unheimlich/perturbante fosse vedere Zappa alla Biennale Musica… e poi invece ho realizzato che Mark Fisher è morto, che Zappa è morto e che insomma, forse il problema sta proprio lì.
Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche
La prima settimana della frastagliata rassegna di musica contemporanea
La versione di Massenet, la congiunzione astrale e Clouzot