Buon compleanno John Zorn

Una collaborazione fra Angelica, L’Altro Suono e Aperto per festeggiare un "musicista vivo"

John Zorn (foto Rolando Paolo Guerzoni)
John Zorn (foto Rolando Paolo Guerzoni)
Recensione
oltre
Modena, Reggio Emilia
John Zorn @ 70
30 Ottobre 2023 - 31 Ottobre 2023

Frutto dell’incontro di tre festival tra Bologna, Modena e Reggio (Angelica, L’Altro Suono, Aperto), che ha già portato in queste terre, tra gli altri, personalità  come Heiner Goebbels, Cecil Taylor e Ornette Coleman, l’evento di fine ottobre (tre concerti in due giorni nei tre capoluoghi emiliani) è, nelle parole di Massimo Simonini, mente di Angelica, una collaborazione all’insegna dei compositori viventi, un po’ un’eccezione nei teatri d’opera.

Una collaborazione all’insegna dei compositori viventi, un po’ un’eccezione nei teatri d’opera.

Si celebrano i settant’anni di John Zorn, sassofonista, compositore e deus ex machina dell’etichetta Tzadik, da poco sbarcata con tutto il suo sterminato catalogo su Spotify.

Grande è dunque la curiosità per il ritorno in Italia del musicista newyorchese, testimoniata da teatri quasi pieni in ogni ordine e grado, nelle prime due date. Il progetto, rimandato dal 2020 causa pandemia, vede il sassofonista in veste di compositore, arrangiatore, direttore, interprete (anche all’organo) e curatore.

Una panoramica, una vetrina dell’alta pasticceria Zorn, un invito alla festa per celebrare i suoi settant’anni  e il cinquantesimo di attività artistica, in compagnia di una serie di strumentisti provenienti da mondi diversi.

Al teatro Storchi di Modena l’apertura è con Jumalattaret, ciclo per pianoforte e voce ispirato alle leggende pagane finlandesi, con il soprano e direttrice d’orchestra Barbara Hannigan e Stephen Gosling al pianoforte. La grande bravura della cantante non è sufficiente: il problema dal nostro punto di vista risiede nella scrittura, che in questo caso indulge al didascalico. Le fughe e le rincorse tra il registro grave della tastiera e gli acuti della voce non bastano ad animare tracce di cui, pur ascoltandole per la prima volta, in qualche modo sai prevedere il dipanarsi: non un buon segno.

Vanno decisamente meglio le cose nel secondo set, dove al pianista si aggiunge la sezione ritmica di Jorge Roeder (contrabbasso) e Ches Smith (batteria) e il vibrafono di Sae Hashimoto. Protagonista di un cd pubblicato nel 2021, il quartetto attacca in modalità vertigine con un dettato fitto e all’insegna dell’iper-swing; unisoni, stop’n’go, poi un mid tempo incalzante e feroce. Tim Berne frullato in una centrifuga a 1000 all’ora, bop allucinato e futurista, con il contrabbasso quasi mingusiano in alcuni frangenti  e squarci melodici luminosi (la parte centrale di “Acéphale”) e una musica che in generale convince per energia, ispirazione, tensione. Straordinaria la vibrafonista giapponese.

A seguire il solo all’alto di Zorn è un po’ il solito solo di Zorn: schiamazzi, rimbrotti, un piede poggiato sulla sedia, lo strumento contro la gamba, la respirazione circolare. L’ultimo pezzo è il più a fuoco, dove il festeggiato spinge con quanto fiato ha in corpo.

A chiudere la serata modenese l’ennesima dimostrazione di come all’autore sia sempre interessato e interessi ancora il mondo del rock estremo: il trio Simulacrum è infatti composto da John Medeski all’organo, Matt Hollenberg alla chitarra e Kenny Grohowski alla batteria. Presentato come l’organ trio più estremo di sempre (Zorn è anche abile uomo marketing, nel bene e nel male), ci propone una musica pestona dove a riff di chitarra massicci e minimali si accompagna una batteria tambureggiante, con l’organo a coprire (peccato) la sei corde. Jazz-metal convulso, ipercinetico, in modalità giapponese: unisoni efferati, swing alla velocità della luce, lame noise, qualche lungaggine che li porta nei perigliosi dintorni della fusion, lava jam-rock dove i musicisti si danno molto da fare (Medeski anche troppo). Il batterista, membro della band black metal Imperial Triumphant, è bravissimo, ma è un classico con Zorn che gli interpreti siano tutti di primissimo livello; alla fine dopo la tempesta resta poco, perché la formula adottata nel live è consunta: mega riff che ti azzannano alla gola, virtuosismi di batteria a seguire ogni virgola e a cadenzare un respiro accelerato, cambio repentino di mood e poi si riparte all’unisono di nuovo a rotta di collo. Nella confusione emergono alcuni nitidi lampi di ispirazione e qualche idea potente, ma in generale siamo persi nella nebbia. 

Il secondo giorno a Reggio Emilia si riparte da Barbara Hannigan e Stephen Gosling con un ciclo di sei canzoni ispirate alla poetessa Emily Dickinson: va un po’ meglio rispetto a Modena, con un mood che esplora gli interstizi tra il languido, l’austero e il riflessivo, ma restiamo nell’ambito del prescindibile. Straordinaria davvero per bravura, capacità metamorfica ed espressiva la Hannigan, ma la scrittura dei pezzi non è memorabile.

A seguire Star Catcher, dove al duo piano voce si unisce la solita sezione ritmica, con Jorge Roeder e Ches Smith, interpreti sopraffini. Viene presentato un ciclo di nove composizioni, ispirato all’opera della pittrice alchemica Remedios Varo, dove tutti i testi sono tratti da titoli dei titoli dei suoi dipinti. La fa da padrone il dettato velocissimo e nevrotico che è un po’ il marchio di fabbrica zorniano (sino quasi a divenire talvolta cliché): stacchi, stacchi, attacchi di swing; anche i frangenti in cui l’acqua si increspa, la marea si alza e un articolato e organizzatissimo caos prende il sopravvento non riescono però a togliere l’impressione di una scrittura che non va in profondità.

Il terzo set della serata vede alla sezione ritmica unirsi il pianista Brian Marsella per una suite in dieci movimenti ispirata, nelle parole dell'autore, a Bach e Schönberg. Al netto della presentazione roboante, la composizione suona come la più convincente della serata: dopo un attacco da ballad la scrittura impazzisce in fuochi d’artificio e un ripetersi concitato di situazioni sonore dove Zorn mostra di abbeverarsi alla fonti della storia (c’è anche un frangente di ragtime in anfetamina); poi una figura di basso nera, minima, incalzante attorno alla quale si scatena una tempesta: lì si raggiungono vette che ci ricordano la complessità orchestrale di un Taylor.

Le parti più concitate e tachicardiche, come spesso in Zorn, sono le più ispirate: nella repubblica del jazz e nella vetrina che viene aperta in questi due giorni in questo frangente intravediamo ombre di Ellington, di Parker, di Mingus; il finale è sospeso, enigmatico.

Chiude in prima italiana il New Masada Quartet, con Julian Lage alla chitarra, Zorn all’alto, Kenny Wollesen alla batteria e Jorge Roeder al contrabbasso. Un mood carico di venti da Oriente, che fa emergere memorie del Coltrane di Olé, poi dei quartetti di Ornette; notevole il lavoro di Roeder, Lage cerca di seguire le orme di Ribot, ma l’obiettivo pare ancora lontano; i momenti meno tematici dove Zorn impartisce istruzioni fulminee ai sodali sprigionano ancora energia vivida, sebbene le vette degli altri capitoli di questa esperienza per ora restino visibili solo a distanza.

Il folto pubblico applaude con convinzione e reclama un bis che non arriverà. John Zorn deve fare armi e bagagli per trasferirsi a Bologna, dove  a mezzanotte si esibirà in un solo per organo e sax alto alla Basilica di Santa Maria dei Servi.

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