Zsela, la nuova musa di New York 

Ache of Victory è il debutto della cantautrice Zsela Thompson, una cura per anime inquiete tra Joan Armatrading e FKA twigs

Zsela
Disco
pop
Zsela
Ache of Victory
Zsela
2020

La prima volta che ho ascoltato la voce di Zsela Thompson mi sono tornati in mente alcuni versi della poetessa statunitense Sylvia Plath: «Sono abitata da un grido. / Di notte esce svolazzando/ in cerca, con i suoi uncini, di qualcosa da amare.» (Olmo, 1962)

Il debutto della cantautrice americana Zsela, dal titolo Ache of Victory sembra una sorta di dolorosa autoterapia, una cura per anime inquiete. Ha il potere di consolarci, ma anche di mostrarci in un modo selvaggio, con affermazioni lapidarie e una grazia maestosa, le verità che non vorremmo mai ascoltare. Un contatto spirituale crea un’uscita temporanea da noi stessi. Ci prendiamo cura del tempo, cullati da un suono languido, talvolta sincopato con tocchi d’avanguardia (ricorda la scena sperimentale alla Devonté Hynes, Tei Shi, FKA twigs, Moses Sumney).

Nonostante i suoi 25 anni, Zsela dimostra una solida integrità artistica che le deriva da un ambiente familiare creativo e dai suoi riferimenti musicali (Joni Mitchell, Tracy Chapman, Jennifer Charles degli Elysian Fields e, in particolare, Joan Armatrading). Il padre è Marc Anthony Thompson, cantautore americano conosciuto anche come Chocolate Genius, la madre è la fotografa d’arte Kate Sterlin, la sorellastra è l’attrice Thessa Thompson. Il suo nome è stato inventato dalla madre e si pronuncia Zhay-Lah, prende la sua prima sillaba dal suono affascinante Zsa Zsa Gàbor (nome dell’attrice ungherese naturalizzata statunitense) e non ha un significato unico, «cambia sempre».

FKA twigs, diva del XXI secolo

È stata definita «la nuova musa della fashion scene newyorchese», dopo aver cantato a cappella al MoMA PS1 per Vaquera (etichetta di moda gestita da Patric DiCaprio, Claire Sullivan e Bryn Taubensee) e dopo l’esibizione al Whitney Museum of American Art di New York, incantando il pubblico con “Don’t Let Me Be Misunderstood” di Nina Simone. Ha stregato Cat Power, che l’ha scelta per aprire i suoi concerti nell’ultima tournée: «la voce di Zsela è senza tempo e la profondità delle frequenze e il suo tono sono un trionfo vibrante di guarigione». 

La cantautrice non ha avuto fretta di pubblicare il suo primo progetto discografico, insieme al produttore Daniel Aged (già collaboratore di Freak Ocean, Fka twigs, Kelelae), che ha dato una direzione minimalista a Ache of Victory, mettendo in risalto soprattutto la sua voce e i testi. Sebbene siano solo cinque tracce, Zsela afferma di aver lavorato per anni a queste canzoni, prima di decidere insieme ad Aged, di portarle alla luce. «La lunga gestazione dell’album mi ha insegnato a prendermi il mio tempo, a essere paziente» ha dichiarato in una recente intervista al "New York Times". «Mi ha insegnato a lasciar andare davvero la paura. Non voglio che questo però mi inscatoli in un "solo lento". Posso andare in posti diversi se voglio, ma non ora, forse dopo. Avevo solo bisogno che questo disco fosse così». 

Le cinque tracce navigano in un’atmosfera emotiva ondulatoria che si ripete, come se tutto fosse legato, mentre gli strati della voce di Zsela si adagiano perfettamente sulle tastiere sostenute, o su percussioni elettroniche rarefatte. Un unico, monolitico ritmo a sostenere l’impianto generale, che potrebbe esplodere da un momento all’altro, invece implode silenziosamente, generando propagazioni soniche potenti, che s’infrangono sulle pareti delle nostre menti.

Le melodie di Ache of Victory sono materie luminose, nelle quali si annida anche un senso di angoscia fluttuante, che attinge dai ricordi del passato, dal dolore della perdita, dalla volontà di andare oltre, spingendosi verso il cambiamento. Come nella ballad che apre l’EP, “Drinking”, in quelle poche note iniziali del pianoforte e nei versi “I’ve been drinking again/ I’ve been losing all my friends”, prendono il via una serie di acrobatiche ammissioni sulla paura della dipendenza, sul terrore dell’annullamento e della solitudine, fino al culmine, uno squarcio nella tela e la voce di Zsela a cappella, amplificata che si confessa.

“Earlier Days” (singolo insieme a “Noise”, del 2019) è una riflessione solitaria sulla fine di una relazione e sulle connessioni tra i ricordi e ciò che resta, e se la musica intorno a lei si espande, aprendosi verso spazi illimitati, i suoi testi prendono un’altra direzione: “I know how to lose/ I taught myself when I found you”. In “For Now” la voce resta sospesa in aria. Poi discende lentamente nel suo monastero privato e lì con bassi oscuri, profondi e vocalizzi impalpabili, si rivolge ai suoi genitori (“I know what you're thinkin' Mother/ I know what you're thinking' Father/ I went and found the beauty for you”), avvolta da un’aura mistica, da un paesaggio sonoro essenziale. Il suono deformato di trombe apre la penultima traccia “Liza” e qui gli arrangiamenti si fanno più ricchi e i melismi più dinamici. Se chiudiamo gli occhi, verso la fine, quel “Call me out” sembra quasi una polifonia sacra.

Ache of Victory si chiude con un canto a cappella di rara bellezza e calma dal titolo “Undone”. C’è il desiderio, forse, di riprendere in mano i lacci ormai indeboliti di una relazione, ma di non esserne pienamente capace: “I keep on falling for you/ falling into the undone”. Arriva all’ascoltatore con la forza di un nudo monologo, dal quale ci si sente stranamente protetti. Nella musica della cantautrice americana, nel suo tono solenne ma pacato e nelle liriche intime, si nasconde una connessione misteriosa, che passa attraverso i nostri corpi e ci rimane, sedimentandosi dentro di noi come granelli di sabbia bagnati dal mare. Quando la musica termina è come se Zsela rimanesse sola con la sua voce, di notte, in cerca di qualcosa da amare. 

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