Roberto Negro, pianoforti sicuri ed elettronica avventurosa

Kings and Bastards, il nuovo lavoro del pianista Roberto Negro, esce per CamJazz

Roberto Negro, Kings and Bastards
Roberto Negro
Disco
oltre
Roberto Negro
Kings and Bastards
CamJazz
2018

Una brutta copertina non è un solitamente un buon biglietto da visita per un disco, ma i glitches e i bordoni che ci accolgono, come un tuffo in un mare glaciale, tra voci di balene e banchi di krill sorprendono, ed è questa una della caratteristiche che maggiormente apprezziamo in un disco: la capacità di proporci l’inatteso.

L’incipit del primo disco solista di Roberto Negro, italiano trapiantato a Parigi, che qui si cimenta al pianoforte (anche preparato) e all’elettronica promette bene. Un clima languidamente artico che ricorda da vicino certi frangenti dell’ultimo Hobby Horse ("Fahrenheit 0.2", siamo dunque quasi a 18 gradi sottozero) per poi aprirsi a una melodia larga, vagamente memore di certo Gismonti, ma a un passo dalla bella calligrafia.

Decisamente più interessante e personale l’esperimento di "Kings & Bastards", come un carillon rotto dal groove implacabile, tra labirinti matematici, fughe à la Steve Reich e un mood vagamente prog. Una possibile risposta allo zen funk dei Ronin di Nick Bartsch, capaci di lasciare a bocca aperta al primo impatto ma poi alla lunga un po’ troppo algidi. Tra panorami assorti e brumosi ("François il Riformista"), missioni lunari ("Fahrenheit 1.7") e Afriche possibili, minimali ed elettroniche ("Lemba", sinuosa ed interrogativa, splendida), il disco scorre mostrandoci le varie facce di un musicista che non ha timore di cercare una propria strada e a volta sa trovarla con ottimi risultati.

Se gli episodi al pianoforte sono quelli che convincono meno (non perché manchi talento a Negro, ma sicuramente perché è difficile oggi ampliare il vocabolario delle composizioni per pianoforte nudo e non suonare comunque in qualche maniera almeno in parte didascalici, a meno di non chiamarsi Craig Taborn o Gianni Lenoci, per restare in Italia), la strada da perseguire con sempre più convinzione è quella dell’abbraccio con le macchine: "Scaramouche" ad esempio, finchè è "solo" al piano ci mostra un musicista sicuro, pienamente padrone dello strumento, eclettico, virtuoso (caratteristica che ci appassiona a dire il vero poco, nella musica) ma la cosa inizia a farsi davvero interessante quando arriva l’elettronica a interferire con le ripetizioni sui tasti, aprendo possibilità, scenari, mondi.

Se alcuni passaggi suonano prescindibili ("Il Gattopardo", e in generale tutti i momenti più classicamente melodici), l’idea di far virare Bill Evans verso l’ambient è invece avvincente ("Giò") e la chiusura con i quasi otto minuti scabri e psicologici di "Beaumarché" (sembrano quasi usciti dalla fucina di Touch Records, ed è un complimento) ci lascia con la speranza che Roberto Negro molli gli ormeggi che lo tengono ancorati a porti sicuri per avventurarsi in mare aperto, sin dal prossimo disco.

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