Liebman, Rudolph e Drake maestri del Chi

Il disco del trio Dave Liebman, Adam Rudolph, Hamid Drake è un'ora di musica balsamica, purissima

Dave Liebman, Adam Rudolph, Hamid Drake
Disco
jazz
Dave Liebman, Adarm Rudolph, Hamid Drake
Chi
Rare Noise Records
2019

Lavora finché il tuo cervello dimentica e il tuo corpo ricorda. Paiono proprio aver seguito questa massima del Qi Gong Dave Liebman (sax tenore e soprano, pianoforte,flauto dolce), Adam Rudolph (percussioni di ogni tipo) e Hamid Drake (batteria, voce, tamburo a cornice e percussioni).

Sei tracce per questo Chi, come una selva intima e universale, prealfabetica, un posto dove i tre strumentisti si incontrano proprio grazie alla memoria e alla sapienza del loro corpo. Come ricordava Picasso, ci si mette del tempo a diventare giovani, e queste lunghe improvvisazioni sono il frutto di una connessione che ha del telepatico tra anime in connessione profonda. Un che di ancestrale, dato dai mondi evocati dalle percussioni (Rudolph, definito da "Downbeat" uno "stregone" delle percussioni, ha un set che spazia dallo djembe alla marocchina tarija, dal sintir, strumento a corde della tradizione gnawa, alle congas), un flusso inarrestabile ed avvolgente che sa di luoghi che non conosciamo eppure ci portiamo dentro e di altrove necessari prima ancora che possibili.

Se Rudolph, considerato uno dei prime movers di quella che oggi viene definita world music, ha collaborato, tra gli altri, con Don Cherry, Jon Hassell, Pharoah Sanders e Yusef Lateef, Liebman dal canto suo ha lavorato con icone come Miles Davis ed Elvin Jones, mentre Drake è uno dei più grandi batteristi viventi, anche lui con una lista di collaborazioni sconfinata (assieme a William Parker forma una delle sezioni ritmiche più esplosive che sia dato ascoltare). 

Visto il curriculum dei tre, poteva uscire magari un disco di esibizionismi e di specchi. Nulla di tutto questo, invece, ma un viaggio sentito nelle profondità dove tutto ha avuto inizio, alla ricerca del primo soffio che ha creato la vita. Il sipario si apre su "Becoming", tre minuti di scarsi di fondali tra elettronica (è Rudolph a processare i suoni elettronicamente) e ombre di jazz che pare suonare come certe pagine ECM, soprattutto quando entra Liebman al tenore. Profili boreali che poi svaniscono nella giungla di "Flux" (sembra di ascoltare una versione essenziale della Go:Organic Orchestra del percussionista di Chicago), dove si fa spazio tra la folta vegetazione la voce sicura e calda di Liebman, come un Coltrane perso in labirinti verdi che poi, in un magico gioco di specchi, si affaccia su un quarto mondo alla Hassell, con un uso poetico dei loop, mentre tutto intorno fioriscono voci, appaiono creature, uccelli, e il bello è che a occhi chiusi tutto questo è perfettamente visibile. Il suono che i tuoi occhi possano vedere, titolavano un disco gli inglesi Moonshake oramai 25 anni fa: un "Continuum" (così si intitola la terza traccia) dove l’ispirazione è sempre alta, forme senza forme ("Formless form", la quarta), un sottomondo dove brulicano invenzioni e linguaggi preverbali, tra ricordi di Mu, il capolavoro di Don Cherry in duo con Ed Blackwell, fragranze indiane ("Emergence"), preghieri a divinità dall’espressione impassibile, silenzi, agguati, attese, un mood febbrile che rapisce e rende ogni passo in questo mondo una possibilità di scoperta.

«La strada, la viva foresta dove ogni istante può piovermi addosso come una magnolia»: così scriveva Julio Cortazar in Storie di Cronopios e di Famas. Di strada ne hanno fatta tanta i tre musicisti coinvolti in questo disco, ma sono ancora capaci di trasformare la stanza dove ascoltiamo ora in un sentiero verso l’ignoto, tra echi delle jam più astratte dei Grateful Dead e una sapienza infusa in ogni foglia di questo tè psicoattivo; come la descrizione acustica di un luogo magnifico e perduto, tra sessioni sciamaniche e il magistero intraducibile dei rituali indigeni. Un’ora di musica balsamica, di magia purissima.

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