Il Servo Padrone: dopo il capolavoro pergolesiano, il sequel di Aldo Tarabella e Valerio Valoriani per Bazar Opera Festival completa il celeberrimo intermezzo settecentesco, alla ricerca delle molte anime e tradizioni della comicita' italiana

Il Teatro del Maggio inaugura con una "Manon Lescaut" pucciniana rispolverando un vecchio e fortunato allestimento del Massimo di Palermo, affidando la regia ad un figlio d'arte, Pier Francesco Maestrini, e il podio ad uno dei direttori più amati dai melomani, Daniel Oren. Fiorenza Cedolins attesa ed applaudita protagonista.

Un Falstaff agile ed energico diretto da Enrique Mazzola apre la ventisettesima edizione del Cantiere Internazionale d'Arte di Montepulciano. Regia piacevole, due veterani come Romero e la Serra in un cast prevalentemente giovane.

Il Simon Boccanegra di Claudio Abbado al sessantacinquesimo Maggio Musicale Fiorentino: un trionfo per il maestro, di nuovo a capo, dopo tanti anni, di una produzione italiana. E' un debutto italiano nella regia d'opera per il grande Peter Stein. Spicca nel cast, accanto al protagonista Carlo Guelfi, la dolce, intensa e luminosa Amelia Grimaldi di Karita Mattila.

Il Mozart affettuoso e un po' smussato di Zubin Mehta, la regia senza troppe ambizioni ma spontanea e agile di Eike Gramss, uno spettacolo piacevole in tutta tranquillita': dopo trentatre' anni torna alla Pergola di Firenze il mozartiano "Ratto dal serraglio" ed e' successo al sessantacinquesimo Maggio Musicale Fiorentino. Elegante piu' che prestante la Konstanze di Eva Mei, il trionfatore della serata e' Kurt Rydl nei panni di Osmino.

Cartaginesi in divisa giallo canarino e scenari da videogame: qualche contestazione per la regia di Graham Vick per "Les Troyens" di Hector Berlioz che hanno aperto il 65.mo Maggio Musicale Fiorentino. Prima tirata per le lunghe: dalle 15,30 a mezzanotte per quattro ore di musica. Ma l'ispirata direzione di Zubin Mehta e una grandissima Didone, Violeta Urmana, trascinano comunque al successo il capolavoro di Berlioz.

"Morte a Venezia" in chiave di neoclassicismo novecentesco: il bello spettacolo di Pier Luigi Pizzi per l'ultima opera di Benjamin Britten (1973) rinnova al Comunale di Firenze il successo ottenuto due anni fa a Genova, appoggiandosi alla concertazione di Bruno Bartoletti ed al nutritissimo cast capeggiato da Jerry Hadley nel ruolo di Gustav von Aschenbach

Teatro nel teatro, metateatro, teatro di maschere come pretesto di una decisa virata antinaturalista in ancor piena anzi pienissima stagione "verista", in un profluvio di citazioni, autocitazioni e omaggi che arieggia già al Neoclassico e a tante altre cose importanti del Novecento... di fronte a "Le maschere" di Pietro Mascagni, di cui il Cel (Comitato Estate Livornese) - Teatro di Livorno per il cartellone di Città Lirica (la stagione d'opera Lucca-Pisa-Livorno) ha realizzato alla Gran Guardia una pregevole ed azzeccata 'edizione del centenario', è difficile esimersi dal tirare in ballo una gloriosa lista di titoli, dall'"Arianna a Nasso" a "Pulcinella" all'"Amore delle tre melarance" (con segno diverso alla stessa "Turandot"), e, quanto al teatro parlato, con tutt'altra intenzione e temperie, persino al denudamento pirandelliano della maschera. L'origine dell'idea sarà magari altra e più modesta, un goldonismo bonario e manierato di marca ottocentesca, le pubblicazioni degli antichi scenari della Commedia dell'Arte nell'ambito della cultura positivista... ma è un fatto che ancora una volta, com'era successo poco prima con "Iris", Mascagni, alla ricerca di qualcosa di diverso dal modulo verista di "Cavalleria" che gli aveva dato il successo, volge all'intorno con prontezza le antenne del suo genio vivace e scriteriato. Confeziona così un'opera in cui i Personaggi non sono Sei ma nove, Pantalone, Rosaura, Florindo, Graziano, Colombina, Arlecchino, Capitan Spavento, Brighella e Tartaglia, più l'impresario Giocadio della cornice metateatrale iniziale. Anche se certe soluzioni drammaturgiche e musicali sono affini (dalla presenza di ruoli parlati, qui l'impresario della Parabasi iniziale, alla drastica riduzione settecentista dell'orchestra), nessuno vorrà certo sostenere che i risultati siano paragonabili ai titoli che si sono fatti sopra; e tuttavia, a riascoltarla, l'opera, dominata da poche ma azzeccate invenzioni musicali, ha una sua stramba seduzione di cui forse è persino difficile dar conto. Il tipico melos naturalista è contenuto in una fraseologia breve e quadrata (diciamo pure neoclassica o almeno ciò che Mascagni sembra intendere per tale) adattabile agli amabili strambottini di cui è costituito il libretto dell'espertissimo Luigi Illica (lo stesso che con "Iris" aveva precocemente intuito e suggerito a Mascagni un teatro, più che di esotismo, di idee e simboli), in una petizione di leggerezza che sembra quanto di più distante dal temperamento di Mascagni; ma il tutto si sostanzia di un affetto vero per il mondo delle maschere, per le vecchissime trame padri burberi-figli innamorati che risalgono nientemeno che alla Commedia Nuova ateniese, per il Settecento italiano di Paisiello e Cimarosa (intuibili in palinsensto nel brio dei violini, nel trattamento comico degli strumentini). Un affetto, un sogno tinto dei colori della commedia ma che spesso diventa curiosamente malinconico, fino al coro finale in lode delle maschere italiane, inappropriatamente ma anche seducentemente struggente. È stata, quella di Livorno, una buona edizione. La concertazione non proprio rifinita ma scorrevole e funzionale di Bruno Aprea si appoggiava su un'orchestra e coro di più che accettabile efficienza e su un copioso cast omogeneo e molto ben preparato, con il veterano Graziano Polidori come Pantalone e in cui spiccavano per simpatia e musicalità il Tartaglia di Giorgio Caoduro, per momenti di canto aggraziato il Florindo di Maurizio Comencini e la Rosaura di Raffaella Angeletti, per fisicità l'Arlecchino di Alessandro Cosentino. Ma ciò che contava era l'effetto Lindsay Kemp: l'artista inglese firmava scene, costumi e regia, una regia di lazzi stilizzatissimi contrapposti a immobilità da belle statuine e generalmente ritmata sulla musica (cosa che dopo decenni di ponnellismo potrebbe anche dare uggia ma che per queste "Maschere" ci è sembrato che andasse benissimo), una scena che è un omaggio all'estetica teatrale illusionista dei praticabili e dei fondali dipinti, ma straordinariamente nobilitata dalle splendide pitture sceniche di Mark Baldwin (un corteggio di maschere-animali un po' alla Chagall, una Venezia in verde e rosa volutamente di maniera, una scena pulcinellesca che invece arieggia a Goya e Daumier). Effetto Lindsay Kemp, ossia ci si ritrovava ad applaudire come bambini cose come il tableau fermÈ, con i Pulcinella rossi ballerini in primo piano in un'orgia di colori netti illuminati a giorno, alla fine della Furlana del secondo atto, e queste "Maschere" si rivelavano capaci di sollevare nella roccaforte mascagnana della Gran Guardia un'ondata di piacere teatrale su cui forse, all'inizio della serata, non tutti avrebbero scommesso.

"Attila" fra le sculture di Marino Marini: una rilettura in chiave mitico-moderna dell'opera giovanile di Giuseppe Verdi, nobilitata dalla bella concertazione di Roberto Abbado e da un cast in cui spiccavano il possente Attila di Ferruccio Furlanetto e la rivelazione di questo "Attila", Dimitra Theodossiou nel ruolo di Odabella.

Anatomia di un interno borghese con padroni e servi: a Firenze un "Don Pasquale" ambientato in una casa delle bambole, con la regia di Jonathan Miller,la sofisticata rilettura musicale di Oleg Caetani e uncast (Surian, Mei,Polenzani, Corbelli) di ottimo livello

L'Amazzone e l'amore cannibale: prima italiana al sessantaquattresimo Maggio Musicale Fiorentino, con Gerd Albrecht sul podio, per un titolo importante del Novecento storico, Penthesilea dello svizzero Othmar Schoeck dalla celebre tragedia di von Kleist (1927), fra memorie dell'Elektra di Strauss e originale, affilata modernità dell'orchestrazione. La scena (Hans Schavernoch) Ë un gigantesco torso inclinato, Harry Kupfer firma con successo la sua prima regia italiana, Doris Soffel e Dietrich Henschel i generosi protagonisti.

Rigorosa ma anche di fortissima comunicativa pur nella sua impronta stilizzata la regia di Graham Vick appoggiata alle belle scene di Richard Hudson, ricca di fascino la concertazione di Ivor Bolton e di grande rilievo il cast a partire dall'Andronico squisito di Sara Mingardo: per il Tamerlano di Haendel al Maggio Musicale Fiorentino è autentico trionfo