The Bug sulla rotta Bruxelles-Torino

Abbiamo intervistato Kevin Richard Martin (The Bug) in attesa del suo live a Jazz Is Dead

The Bug Jazz Is Dead Intervista
The Bug (foto Caroline Lessire)
Articolo
pop

Al termine dello scorso agosto Kevin Richard Martin a.k.a. The Bug ha pubblicato Fire, episodio conclusivo (forse) di una trilogia (forse) urbana cominciata nel 2008 con London Zoo e proseguita nel 2014 con Angels & Devils.

Un disco che non ha fatto fatica a entrare nella nostra classifica dei migliori album del 2021: come forse ricorderete, mini-recensioni a mo’ di tweet accompagnano i nostri venti dischi preferiti e di Fire scrivemmo così: «A sette anni di distanza dal precedente Angels & Devils, Kevin Martin indossa nuovamente i panni di The Bug in un album che mantiene ciò che il titolo promette: musiche per un mondo in fiamme, con un sound system che martella su macerie fumanti. Il disco più arrabbiato e indignato, ma al tempo stesso lucido, del 2021».

– Leggi anche: Moor Mother nel Bunker

Bene, sabato 28 The Bug, in compagnia di Flowdan, sarà a Torino, ospite di Jazz is Dead 2022 – Mutazione, e questo appuntamento ci ha fornito lo spunto per una chiacchierata (come vedrete interrotta da molte risate) con Kevin.

Come sta andando il tour?

«Il mio non è un vero tour in giro per l’Europa, tendo a concentrare i miei set nei fine-settimana. Quando sono in giro sento la mancanza della mia famiglia; ho una figlia di cinque anni e nei giorni scorsi, mentre stavo per partire, per la prima volta mi ha detto “Papà, mi manchi, non te ne andare”. Puoi immaginare, è una frase che mi ha sciolto il cuore».

Non facciamo scherzi: prima la data di Torino e poi fai quello che vuoi. Se può servire, di’ a tua figlia che le manderò dei dolcetti.

«[Risate]… Hai capito, devo trovare un equilibrio tra la mia vita privata e il mio lavoro. Non posso essere un live concert animal. In ogni caso sono molto felice di partecipare a Jazz is Dead, un festival a cui potrei intervenire anche solo come spettatore perché ci sono molti artisti che mi piacciono e rispetto, come Debmaster, Babe Roots e Holy Tongue, solo per nominarne alcuni».

«Sarà un set pesante».

«Per quanto mi riguarda sarà un set pesante, ho chiesto più bassi per il locale e più subwoofer per me sul palco, con un volume rapportato alla potenza del sound system e alla sopportazione fisica».

Fire, fuoco, incendio: un titolo che oggi suona sinistramente profetico…

«Sì, i cambiamenti climatici, la guerra tra Russia e Ucraina, afro-americani uccisi per strada dalla polizia, una follia decisamente generalizzata e in più il Covid che è ancora tra di noi. A proposito di quest’ultimo, prevengo la tua domanda e ti rispondo: non penso che la situazione nei club sia sufficientemente sicura. Dopo due anni bisognava riaprire, i musicisti avevano bisogno di andare in tour, la gente aveva voglia di tornare a una parvenza di normalità, ma non ti nascondo che ogni esibizione è più impegnativa e più stancante, anche dal punto di vista emotivo, di prima. Per me stare fermo così a lungo è stato devastante: io porto il pane a casa per quattro persone, quindi puoi immaginare. Non c’è stato il tempo per piangersi addosso, ho dovuto esaminare questa follia anche dal punto di vista filosofico e trovare delle soluzioni. Ho continuato a fare musica col mio nome da solista e per fortuna il pubblico mi ha seguito su Bandcamp, dandomi la possibilità di tirare avanti».

 «Negli ultimi vent’anni – Kevin continua – la maggior parte di coloro che fanno musica lo ha fatto per i soldi; io ho cominciato a fare musica e continuo a farla per un bisogno spirituale [Risate]. Capiamoci, i soldi servono anche a me, voglio dire che non sono l’unico motivo per cui faccio musica. Poi, come te, devo mangiare possibilmente due volte al giorno [altre risate]».

«È anche vero che continuare a fare musica non convenzionale, underground, è una sorta di partita a scacchi: io contro l’industria discografica, io contro il mondo [risate]. È una lotta, sono fortunato a riuscire a pagare l’affitto grazie alla mia musica ma ogni giorno è una cazzo di lotta, credimi. Alle volte è pura sofferenza. In ogni caso mi dispiace molto per i giovani artisti che avevano lavorato duro per costruirsi un seguito: questo lavoro è andato in gran parte perso e dover ricominciare è durissimo».

Torniamo a Fire: è corretto vederlo come il tassello mancante di una trilogia cominciata con London Zoo e proseguita con Angels & Devils?

«Sì, è corretto. È anche una trilogia geografica: Londra e Berlino, dove ho abitato in passato, e Bruxelles, dove abito dall’inizio della pandemia. Sì, ripeto, c’è un link tra i tre album, anche se non ho iniziato il primo disco con l’obiettivo in testa di realizzare una trilogia. No, è successo in corso d’opera. Solo quando ho terminato Fire qualcuno mi ha detto "ehi, questa è la parte che completa una trilogia", ed è vero, quel qualcuno aveva ragione, ma è successo, non c’era nulla di pianificato».  

 Londra, Berlino e poi Bruxelles…

«Non mi sono mai sentito particolarmente legato a un luogo, anzi, ti dirò di più, il quartiere di Bruxelles in cui abito e la casa in cui vivo sono in assoluto i posti con cui mi sia sentito più connesso. Berlino era piena di hipster e di “turisti culturali”, qui, nel quartiere dove abito, non c’è nulla di tutto ciò; è un quartiere multiculturale, mi piace la vita di strada, mi piace la gente che lotta per arrivare alla fine della giornata. Adoro il fatto che sto per uscire dalla porta di casa senza sapere che lingua parlerà la prima persona che incontrerò. Quand’ero bambino mio padre lavorava in Marina e quindi ci siamo spostati spesso, è comunque qualcosa che ti aiuta a crescere. Ho passato diverso tempo a Weymouth, una cittadina in riva al mare – l’unica cosa positiva, mi piace molto il mare e devo ammettere che mi manca – ma era un posto abitato esclusivamente da bianchi, quindi monoculturale, con troppo verde intorno, non vedevo l’ora di potermene andare a Londra con un solo obiettivo: il caos».

«Non nutro nessun tipo di amore per la Gran Bretagna, ho scelto Londra perché è una sorta di libera colonia all’interno della Gran Bretagna. Mia moglie è giapponese e quel simpaticone di David Cameron a un certo punto ha imposto delle regole per cui lei non avrebbe potuto continuare a vivere sul suolo inglese, questo è il motivo per cui siamo partiti e siamo andati a Berlino. Ci siamo stati sette anni, più o meno: Berlino ci piaceva ma non l’abbiamo mai amata, e in più non è mai stata per me fonte d’ispirazione, ma era conveniente e questo è il motivo per cui molti ci vanno ad abitare».

 

«Quando abbiamo iniziato a pensare di lasciare Berlino – prosegue -, eravamo indecisi tra Porto e Bruxelles. In realtà nella mia testa avevo scartato Bruxelles, anche se la sua posizione al centro dell’Europa era molto comoda per il mio lavoro: tutte le volte che c’ero stato aveva piovuto, il tempo era davvero schifoso. Dannazione, sembrava di essere in Inghilterra! [Risate]».

«Poi quattro anni fa ero qui per uno spettacolo, era una bellissima giornata di sole e mi hanno accompagnato a fare un giro della città: mi è piaciuta, trovi tutto senza metterci due ore per andare da un posto ad un altro, è una città a parte, assolutamente non rappresentativa del resto del Belgio, pur essendone la capitale. In poche parole me ne innamorai».

Toglimi una curiosità: quante lingue parla tua figlia? Che confusione ha nella testa?

«[Risate] Effettivamente la domanda è giustificata: dunque, dopo quasi due anni e mezzo che siamo qui parla perfettamente francese, parla perfettamente giapponese grazie a sua madre e, poiché è la lingua comune che usiamo per comunicare in casa, parla perfettamente anche l’inglese. Il figlio maschio, di qualche anno più grande, non parla giapponese ma lo capisce: del resto le donne sono più intelligenti degli uomini, non penso di dirti nulla di nuovo [risate]».

Parliamo un po’ delle influenze nella tua musica: una che ha giocato un ruolo fondamentale è quella della musica giamaicana. Dancehall, dub, anche quello inglese di Adrian Sherwood e della sua etichetta On-U Sound: perché ti piace questa musica?

«[Risate] Bella domanda, anche perché, come ti ho già detto, sono cresciuto in un paesino abitato solo da bianchi, neanche un giamaicano a pagarlo. Però, essendo stato un amante del punk, mi è stato impossibile ignorare l’influenza della musica giamaicana sul punk e ancor di più sul post-punk. Il punk ha fatto scattare un interruttore nella mia testolina di pre-teenager: la mia famiglia era un casino e il casino della musica punk – oltre a stare sulle palle ai miei genitori, cosa che ovviamente adoravo – mi ha fatto capire che in realtà il casino era un po’ dappertutto. Ma è stato il post-punk a farmi venire voglia di fare musica, sono stati gruppi come PIL, Killing Joke, 23 Skidoo, Throbbing Gristle e Joy Division a farmi pensare "ehi, ‘sta roba qui la posso suonare anch’io", e se ci pensi la musica di tutti questi gruppi è condotta dal basso, e spesso è un basso memore della Giamaica».

«I Clash hanno fatto molto per far conoscere la musica giamaicana al loro pubblico e hanno collaborato spesso con Mikey Dread. Vivendo in un paesino di merda, con poche possibilità di vedere concerti, in un’epoca ovviamente pre-internet, un ruolo cruciale per me l’ha svolto il DJ radiofonico John Peel, è grazie a lui che ho scoperto il reggae. All’epoca frequentavo ragazzi più grandi di me e una sera uno di loro mi portò a una festa che si teneva nel college: quella sera, me lo ricordo ancora oggi, ascoltai per la prima volta “Foggy Road” di Prince Far I, un’esperienza totalmente nuova, musica che arrivava da un altro pianeta».

«Sono sempre stato attratto dalle cose nuove, la consuetudine mi annoia. Io guardo al futuro, raramente al passato, lo trovo noioso. E quindi il passaggio al dub è stato naturale, ero affascinato dalla possibilità di intervenire sulla struttura di una canzone, avevo intuito che lo studio di registrazione poteva essere trasformato in una musical arena. Compravo dischi di dub perché ero un ragazzo incazzato e non volevo ascoltare lover’s rock con testi sdolcinati, non volevo messaggi positivi, volevo solo la follia del dub».

«E lo stesso è successo con la dancehall: quando, a metà degli anni Novanta, sono entrato per la prima volta in un club dove si ballava questa musica, sono rimasto folgorato, i ritmi e le produzioni sembravano fatti da alieni, i testi erano ossessionati dal sesso e dalla violenza, l’intensità di Shabba Ranks, Ninjaman, Lieutenant Stitchie era più punk del punk. Nel genere dancehall e in quello grime io mi sento fondamentalmente un intruso ma mi ci ritrovo per la loro punk attitude, e lo stesso vale per l’hip-hop. Sono generi in continua evoluzione, specie se paragonati al rock, alla musica dei bianchi. Ho vissuto per molti anni a Londra, sempre in quartieri poveri, e reggae, hip-hop e jungle sono stati la mia colonna sonora quotidiana, qualcosa che ha modificato il mio DNA».

«Quando mi esibisco come The Bug ho un approccio violento, caotico, che mi deriva dall’ascolto di quelli che venivano chiamati Yard Tapes, nastri registrati alla buona in Giamaica, musicalmente parlando dei casini senza senso ma con un’energia che mi faceva impazzire».

Qui è d’obbligo ricordare che da alcuni anni Kevin collabora con Sharon Stern, meglio conosciuta col nome di Miss Red, artista dancehall originaria di Haifa. 

 Gli anni passano ma, come hai detto una volta, vuoi ancora perderti dentro la musica?

«Assolutamente sì. Non sono a mio agio sul palcoscenico, non sono un natural performer, non amo stare sotto i riflettori. Uno dei motivi per cui suono così forte è proprio quello di dimenticare dove sono, cosa sto facendo e chi ho davanti. Nei primi sei mesi della pandemia, come tutti, almeno credo, mi sono posto delle domande filosofiche, tra cui anche se avesse ancora senso preoccuparsi della musica di fronte alla morte di migliaia di persone e sono andato vicino a smettere. In quei momenti mi sono imposto di ascoltare almeno un disco al giorno e di condividere le mie riflessioni sui social, un modo per rimanere connesso alla musica, un’abitudine che continuo a portare avanti».

Allora avrai senz’altro ascoltato il disco nuovo di Kendrick Lamar

«Sì, e sono rimasto deluso. Lui è sempre un rapper incredibile, continua a scrivere testi incredibili, ha fatto dischi incredibili, ma dal punto di vista sonoro questo disco nuovo è sovraprodotto, alla fine risulta vuoto, non mi viene voglia di ascoltarlo nuovamente, come dire… è piatto. In questo momento ci sono altri artisti hip-hop che reputo più interessanti, uno fra tutti Billy Woods. La cosa buffa è che il disco di Kendrick è uscito in contemporanea con quello di The Smile: salvo un paio di canzoni in entrambi gli album ma anche questo secondo è deludente. Mi piace il batterista, Tom Skinner, amo i Sons of Kemet».

Adesso ti dico una cosa sottovoce: non sopporto più la voce di Thom Yorke.

[Le risate vanno avanti per un paio di minuti].

Bene, non mi rimane che darti appuntamento a Torino sabato 28 e scusarmi nuovamente con tua figlia.

«Ti vedrò con piacere e non dimenticare i dolcetti per la piccolina [risate]».

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