Quando la voce si fa corpo

Successo a Venezia per l’omaggio della Biennale al centenario della nascita di Luciano Berio con un allestimento di “Coro” con la coreografia di Wayne McGregor

SN

09 dicembre 2025 • 4 minuti di lettura

Coro (Foto Andrea Avezzù)
Coro (Foto Andrea Avezzù)

Gran Teatro La Fenice Venezia

Coro

06/12/2025 - 07/12/2025

Sorprese d’archivio: “È morto il genio della musica inascoltabile. È morto Luciano Berio, il compositore elettroacustico che è stato vanto della cultura alta, tanto alta da concedersi il lusso della complicazione e perciò spaventare chiunque osasse avvicinarsi ai suoi dischi. Fossero pure gli accaniti ascoltatori di Radio Tre, ne venivano fuori alle sue note, tutti storditi.” Sono le prime righe del necrologio che Pietrangelo Buttafuoco pubblicò in Il Giornale il 28 maggio 2003, l’indomani della morte di Luciano Berio.

Altri archivi, altre sorprese. Ventidue anni dopo è proprio l’Archivio delle Arti Contemporanee della Biennale di Venezia, presieduta dallo stesso Buttafuoco, a dedicare l’evento più significativo del centenario della morte di Luciano Berio. Lo fa con un’inedita versione di Coro del compositore ligure che si avvale della coreografia di Wayne McGregor, attuale direttore artistico del Settore Danza della Biennale.

Diciamolo subito: a quasi cinquant’anni dalla sua creazione ai Donaueschinger Musiktage nell’ottobre 1976 (e dopo soli due giorni alla Biennale Musica veneziana con Berio sul podio di Orchestra sinfonica e Coro WDR di Colonia), Coro continua a imporsi come una delle opere più potenti e radicali del Novecento musicale e l’esecuzione veneziana ne è l’ennesima conferma: la forza espressiva del pezzo non si è affievolita, anzi sembra parlare con ancora maggiore urgenza al nostro presente. La produzione ospitata al Teatro La Fenice non “addomestica” Berio, non ne smussa gli spigoli. Al contrario li rende invece più visibili, permettendo alla danza di dialogare con una delle grandi composizioni del secondo dopoguerra. Coro resta dunque un organismo vivo, un grido polifonico che rifiuta il facile, il prevedibile, il già noto. Merito, in primo luogo, di una esecuzione musicale di grande valore assicurata dagli strumentisti dell’Orchestra del Teatro La Fenice, guidati da Koen Kessels, che hanno affrontato una scrittura spesso estremamente analitica della partitura con lucidità e vigore, restituendone tanto la precisione architettonica quanto i momenti di improvvisa, quasi brutale, espansione timbrica. Accanto a loro, le quaranta voci del Coro della Cattedrale di Siena “Guido Chigi Saracini”, preparate da Lorenzo Donati, hanno dato vita all’impressionante mosaico vocale: solisti, micro-gruppi, costellazioni che nascono e si dissolvono, sempre con un controllo tecnico impeccabile e una qualità espressiva che rendeva tangibile ogni variazione di colore.

Nonostante l’impiego di materiali popolari — canti dal Perù alla Persia, dalla Croazia alle regioni italiane, accostati ai versi laceranti di Pablo Neruda — Coro resta un’opera di portata quasi teorica: un archetipo di scrittura per coro e orchestra che Berio ripensa dalle fondamenta, trasformando la tradizione in un dispositivo complesso, aperto, in continua metamorfosi. È proprio la natura “pensante” di questa musica che ha fatto la differenza nel lavoro coreografico di Wayne McGregor, qui al suo primo confronto con la partitura di Berio. Anziché inseguire la musica o di penetrarne la struttura interna, il coreografo britannico sceglie un’altra via: la danza come filtro, come strato intermedio fra il magma sonoro e il pubblico. L’orchestra e il coro restano sul fondo del palcoscenico, quasi come un altare laico da cui la musica irradia; i venti danzatori — un ensemble che amalgama con grande efficacia i professionisti della Company Wayne McGregor e i giovani formati dalla Biennale College nei cinque anni di direzione dello stesso McGregor — occupano invece il tappeto rosso vivo che copre avanscena e buca orchestrale sollevata e che diventa il loro territorio rituale.

La sintassi coreutica di McGregor è qui di segno prevalentemente neoclassico, elastico e strutturato, capace però di fratture improvvise, come se la danza stessa reagisse alle onde d’urto provenienti dalla musica. La coreografia segue la suddivisione in 31 canti o movimenti di Coro, costruendo di volta in volta “pas de deux” di sapore classico, piccoli gruppi che si disarticolano e ricompongono, fino agli slanci dell’ensemble completo, che nel finale si riunisce in circolo quasi a celebrare la fine del rito. Non è un tentativo di “illustrare” la musica, ma un modo per offrirne un’eco fisica, una rifrazione incarnata nei corpi dei danzatori, che non pretende di spiegare, ma amplifica le articolate dinamiche musicali.

Essenziale e ben calibrato il dispositivo scenico: un cielo di tubi fluorescenti sospeso sull’orchestra, e per i danzatori una progressione luminosa dominata dal rosso, disegnata dalla light designer Theresa Baumgartner. Rosso come il sangue evocato più volte nei versi del coro, rosso come il lampo che attraversa il tappeto nelle proiezioni che disegnano con la luce “Venid a ver la sangre por las calles”, il verso finale (ripetuto tre volte) di Explico algunas cosas nel quale Neruda rievoca gli orrori della guerra civile spagnola. Il riferimento politico, mai esplicito né didascalico, riaffiora così come un’onda sotterranea, rimettendo Coro nel suo contesto di denuncia e dolore.

In una sala gremita in ogni ordine di posti (tutti accaniti ascoltatori di Radio Tre?), il pubblico ha accolto lo spettacolo con un grande calore, piuttosto raro per un’opera tanto complessa. Lunghi applausi hanno salutato tutti gli interpreti — musicisti, cantori, danzatori, il team creativo — a testimonianza di come la scommessa della Biennale sia stata pienamente vinta. Coro resta controverso, sfidante, necessario. E soprattutto vivo.