Una “Clemenza” per parlare al presente
Protesta a inizio spettacolo ma è un successo l’apertura di stagione del Teatro La Fenice con il nuovo allestimento dell’opera mozartiana, assente dal teatro da oltre dieci anni
21 novembre 2025 • 3 minuti di lettura
Gran Teatro La Fenice Venezia
La clemenza di Tito
20/11/2025 - 30/11/2025L’armonia che si ricompone ma solo sul palcoscenico del Teatro La Fenice, che, dopo innumerevoli aperture verdiane, ha aperto la nuova stagione nel segno di Mozart con un titolo assente nel proprio cartellone da oltre un decennio: La clemenza di Tito. Appare invece ancora lontana l’armonia fra le maestranze del teatro veneziano e la dirigenza del teatro, che, forte della rinnovata fiducia di Consiglio di indirizzo e Ministro, mostra i muscoli con i dipendenti, impedendo la lettura del comunicato all’inizio della rappresentazione. E così ancora una volta orchestrali in piazza (anzi, in Campo San Fantin) a spiegare agli spettatori le ragioni, ormai notissime, della protesta. Siamo quindi a un muro contro muro che, se non ha impedito all’inaugurazione della stagione di svolgersi regolarmente, non fa sperare nulla di buono per le settimane a venire.
Dunque, Mozart con una Clemenza raffinata, forse non travolgente, ma capace di restituire la nobiltà di un capolavoro che, ancora a distanza di due secoli e mezzo, continua a interrogare il presente. Il nuovo allestimento firmato dal regista Paul Curran si distingue per l’innegabile eleganza formale, ma resta nel complesso piuttosto anodino sul piano drammatico, quasi trattenuto dietro la superficie levigata della scena, che Gary McCann immagina come grande salone di un museo di antichità classiche: un ambiente di marmo glaciale, solenne e imponente, che genera un’aura di distacco, riflettendo più il rigore dell’archeologia che il tumulto delle passioni che agitano i protagonisti. I costumi, sempre di McCann, dalle linee moderne, tagli essenziali e sobri cromatismi raccontano più efficacemente la natura dei personaggi, che emergono così come figure sospese tra la gelida cornice classica e la contemporaneità delle dinamiche psicologiche al centro dell’opera. Il secondo atto abbandona la compostezza museale per mostrare il grande salone coperto di macerie, scenario di un’esplosione, reale (il primo atto si chiude con il timer dell’ordigno armato da Sesto proiettato sul velatino calato sul proscenio) ma anche metaforica della frattura politica e morale vissuta da Tito e dal suo entourage. Modernizzazioni a parte, la drammaturgia rimane lineare, rispettosa del plot e della sua progressione verso la ricomposizione del finale con il perdono concesso dal clemente sovrano all’amico Sesto, traditore per amore dell’ambiziosa Vitellia. Ma su tutto, come un memento mori, incombe la scritta “Vulnerant omnes ultima necat”, ossia tutte (le ore) feriscono, l’ultima uccide.
Sul piano musicale, il direttore Ivor Bolton propone una lettura molto composta, fin troppo controllata, quasi “classica” nel senso più monumentale del termine. Se da un lato questa impostazione conferisce all’opera una certa solennità, dall’altro finisce per smussare la temperie drammatica che Mozart infonde nelle arie più emotivamente dense. Rimane però lodevole la cura dei preziosismi strumentali particolarmente ricchi in questa estrema partitura mozartiana: l’Orchestra del Teatro La Fenice offre una prova eccellente, con particolare menzione per il clarinetto di Vincenzo Paci, vero coprotagonista nelle due gemme più preziose dell’opera: “Parto, ma tu ben mio” di Sesto e “Non più di fiori vaghe catene” di Vitellia.
Di notevole livello è il cast vocale dominato dall’esemplare Sesto di Cecilia Molinari, impegnata in una prova di grande valore: timbro vocale brunito e morbido, fraseggio di grande eleganza e tecnica impeccabile sono gli ingredienti di una performance che fonde dolcezza e tormento con equilibrio ammirevole. Anastasia Bartoli offre una Vitellia incisiva e sanguigna, vocalmente generosa e teatralmente energica. Meno convincente il Tito di Daniel Behle, corretto ma piuttosto compassato, talvolta troppo di maniera per restituire la complessità interiore del sovrano mozartiano. A dispetto di qualche limite stilistico, è vivacissimo invece l’Annio di Niccolò Balducci, sopranista dalle notevoli doti espressive e di grande freschezza scenica. Più sottotono, viceversa, la Servilia di Francesca Aspromonte, precisa ma poco incisiva dal punto di vista drammatico, e il vocalmente troppo acerbo Publio di Domenico Apollonio. Ottimo, come sempre, il Coro del Teatro La Fenice, pulito, compatto e puntuale nei suoi interventi.
Accompagnati da una pioggia di volantini (con citazione da Keats “La bellezza è verità, la verità è bellezza”), applausi calorosi per tutti, con ovazioni soprattutto a Molinari e Bartoli, vere protagoniste della serata.