La cattiva stella di Wozzeck

Fra tensioni e imprevisti, al Teatro La Fenice va in scena un nuovo allestimento dell’opera di Alban Berg nella versione italiana realizzata per il debutto italiano dell’opera nel 1942

SN

24 ottobre 2025 • 5 minuti di lettura

Wozzeck ( Foto Michele Crosera)
Wozzeck ( Foto Michele Crosera)

Gran Teatro La Fenice Venezia

Wozzeck

17/10/2025 - 26/10/2025

Ci sono produzioni che nascono sotto una cattiva stella come questo Wozzeck che di fatto chiude la lunga pagina della direzione artistica di Fortunato Ortombina e ne apre una nuova sotto auspici che non potrebbero essere peggiori. Saltata la prima a causa delle agitazioni sindacali innestate dall’incauta nomina del direttore musicale del teatro noncurante di prassi ben consolidate (e di buon senso), la terza delle recite del cartellone viene interrotta a terzo atto iniziato per un malore, per fortuna passeggero, del direttore d’orchestra Markus Stenz.

Che la serata non si presentasse nel migliore dei modi lo si poteva constatare dal gran numero di posti vuoti in sala (e per di più destinati ad aumentare per le diverse fughe "in corso d'opera") ma anche dall’isolata contestazione di uno spettatore alla lettura del comunicato sindacale a inizio serata, prontamente silenziata dall'applauso scrosciante del resto del pubblico. E poi, come detto, recita lasciata incompiuta e pubblico che mestamente lasciava la sala con un timido applauso di solidarietà agli artisti.

Per dovere di cronaca, il giudizio sullo spettacolo si basa sulla recita parziale alla quale abbiamo assistito ieri sera e sulla prova generale dello spettacolo, presentata senza interruzioni due giorni prima della prima ufficiale, come noto, cancellata per protesta. 

Venendo al merito dello spettacolo, si direbbe che questa nuova produzione dell’opera di Alban Berg, assente da 33 anni dai cartelloni del Teatro La Fenice, voglia riaprire un dibattito che sembrava ormai archiviato: quello sull’opportunità di presentare in lingua italiana un’opera nata e concepita in lingua tedesca. In un’epoca in cui i teatri tendono alla restituzione filologica delle opere e alla valorizzazione della lingua originale facendo leva sulla tecnologia oggi disponibile, la scelta della Fenice suona decisamente anacronistica. Non solo perché priva il pubblico del contatto diretto con la materia linguistica dura, sgrammaticata e allucinata del testo di Georg Büchner, ma anche perché attenua la tensione drammatica che Berg aveva saputo trasporre magistralmente nella sua partitura. A rendere la scelta ancora più discutibile è l’adozione di una traduzione datatissima, quella del musicologo torinese Alberto Mantelli, realizzata nel 1942 per il debutto italiano dell’opera al Teatro dell’Opera di Roma con Tito Gobbi protagonista.

Se va elogiato il coraggio di allora di presentare in Italia un capolavoro bollato dagli alleati nazisti come “degenerato”, non si può non constatare come quella versione, nata in un contesto storico e linguistico profondamente diverso, mostri oggi tutti i segni del tempo. Il linguaggio di Mantelli, pur nobile nella sua epoca, oggi appare ingessato, artificioso, persino involontariamente comico in certi passaggi che dovrebbero restare sospesi tra allucinazione e tragedia. Le sue formule arcaiche e la punteggiatura declamatoria finiscono per scontrarsi frontalmente con il tedesco scabro e tagliente di Büchner, quel linguaggio da caserma e da taverna che Berg aveva saputo tradurre in musica senza smussarne la brutalità.

Tutto ciò potrebbe sembrare una discussione accademica ma ciò che appare più critico è il fatto che l’ampollosità si cui è intrisa la traduzione di Mantelli investe anche la dimensione interpretativa soprattutto dei due protagonisti. A partire da Roberto De Candia, nel ruolo del tormentato soldato Wozzeck: nelle sue esplosioni sanguigne, più intonate al verismo che non a un lavoro che preconizza l’espressionismo, non si riesce a cogliere la muta disperazione del personaggio e la follia progressiva che lo divora da dentro. Il canto è corretto, ma manca quell’introspezione che dona al personaggio la grandezza dell’eroe pur negativo. In maniera simile, la Marie di Lidia Friedman soffre di un eccesso di enfasi. Il suo approccio, proiettato verso il pathos e il gesto drammatico, rischia di tradire la natura sommessa, quasi rassegnata, di una donna che cerca nell’amore fedifrago per il Tamburmaggiore un illusorio appiglio alla vita. La sua interpretazione, intensa a tratti, finisce per risultare eccessiva, perdendo di vista la misura psicologica che il personaggio richiede. Curiosa, e non del tutto convincente, la scelta di affidare il ruolo del Tamburmaggiore a un tenore di solida vocazione belcantistica come Enea Scala. La sua voce luminosa e squillante, di impronta tutta italiana, dona al personaggio una vitalità insolita, ma anche un colore estraneo all’atmosfera livida e corrosiva dell’opera. Scala canta benissimo, ma sembra provenire da un altro mondo: il suo Tamburmaggiore irradia luce mediterranea e finisce per spostare l’equilibrio drammatico. Più coerenti gli altri ruoli, soprattutto Leonardo Cortellazzi, un Capitano ben delineato, ironico e disturbante, e Omar Montanari, un Dottore sinistro e glaciale e vocalmente solido. Convince meno invece Paolo Antognetti come Andres, la cui presenza scenica risulta pallida e poco incisiva.

Tra i punti di forza di questa produzione, spicca sicuramente la direzione di Markus Stenz. Il direttore imprime alla partitura una tensione costante, serrata, che penetra la carne della vicenda come il coltello di Wozzeck dentro Marie. La sua lettura è lucidissima nei contrasti dinamici e nel controllo delle masse orchestrali, senza mai perdere l’urgenza emotiva. L’Orchestra del Teatro La Fenice risponde con compattezza e precisione, segno di un affiatamento saldo nonostante il clima teso per le recenti tensioni. Meno incisivo, invece, il Coro, che appare talvolta impastato e poco presente nelle sezioni collettive.

Se la lettura sul piano musicale resta l’aspetto di gran lunga più convincente e più autenticamente “berghiano”, accanto alle discutibili scelte linguistiche anche quelle registiche contribuiscono non poco a non rendere giustizia a questo caposaldo del Novecento musicale. La regia di Valentino Villa ha un impianto scolastico, marcatamente illustrativo più che interpretativo, e con un uso fin troppo insistito di sipari – in particolare verso il finale – che finisce per frammentare la tensione e spegnere il crescendo emotivo che i tre atti dell’opera, eseguiti saggiamente senza interruzioni, dovrebbe sostenere. Le scenografie di Massimo Checchetto, invece, offrirebbero un contributo significativo grazie ai rimandi pittorici e all’atmosfera espressionista, che creano un contesto visivo coerente, quasi da incubo dipinto: un’efficace rappresentazione della deformazione interiore dei personaggi.

Come detto, serata che non passerà fra quelle memorabili nella storia recente del Teatro La Fenice e che, sfortuna a parte, non sia un anticipo di ciò che verrà. C’è davvero da sperarlo.