Lo sguardo di Anagoor sulle ferite del mondo

Due produzioni video e musica live di Anagoor: Et manchi pietà al Ravenna Festival e la novità Mephistopheles al Napoli Teatro Festival Italia

Et manchi pietà... al Ravenna Festival
Et manchi pietà... al Ravenna Festival
Recensione
classica
Ravenna / Napoli
Anagoor: Et manchi pietà… / Mephistopheles
29 Giugno 2020 - 02 Luglio 2020

Nell’estate dei vent’anni di Anagoor ci sono due produzioni che si fondano sulle immagini video ma che parlano con la lingua della musica. Due oggetti che sfuggono a classificazioni e a generi consolidati ma che rappresentano nel modo migliore l’estetica di questo collettivo teatrale «che precipita in diversi formati finali dove performing art, filosofia, letteratura e scena ipermediale entrano in dialogo».

– Leggi anche: Tutta la musica di Anagoor

Il Ravenna Festival ripropone nello spazio all’aperto della Rocca Brancaleone Et manchi pietà, creazione del 2012, mentre il Napoli Teatro Festival Italia tiene a battesimo Mephistopheles, la loro creazione più recente prima tappa di una lunga tournée europea dopo le prossime tappe alla Centrale Fies di Dro (17-18 luglio) e all’Operaestate di Bassano del Grappa (7 agosto).

Nella prima c’è il Seicento della pittrice Artemisia Gentileschi, nella seconda una riflessione che parte dal Faust di Goethe ma in entrambe lo sguardo di Anagoor si fissa sulle ferite (sanguinanti) del mondo. 

Atto primo: Et manchi pietà

 Et manchi pietà coniuga un paesaggio sonoro “di affetti barocchi” con un citazionismo iconografico (anacronismi compresi) nella raffinatissima fotografia che rimanda ai modi di Artemisia Gentileschi. Se la scelta delle musiche è naturalmente guidata da considerazioni drammaturgiche, è un dato biografico incontrovertibile l’interesse della pittrice per la musica: abile liutista, mantenne rapporti epistolari con i più importanti compositori del suo tempo. 

Sono tredici le tessere del mosaico composto da Anagoor per raccontare Artemisia, non soltanto attraverso il tormentato percorso biografico, che rivela moltissimo della sua pittura, ma anche al suo recupero in epoca recente, grazie soprattutto agli scritti di Roberto Longhi e Anna Banti nel secolo scorso. Come una fenice, la memoria di Artemisia rinasce dalle ceneri dell’oblio prodotto dal fuoco che divora le sue tele nelle immagini video così come il fuoco distrusse i manoscritti per mano delle truppe tedesche in ritirata e ritardò il recupero alla memoria contemporanea. Il fuoco è anche nella musica, ma è quello d’amore (“… voi pur siete di lei, / ch’è tutta il foco mio, raggi e faville …”) del madrigale monteverdiano “Se i languidi miei sguardi”. 

La traiettoria esistenziale della pittrice viene ripercorsa attraverso alcune figure cardine. La madre, unica figura femminile in una famiglia dominata da presenze maschili, al cui cadavere Artemisia si aggrappa come una naufraga a una zattera sulle note struggenti della nenia “Hor ch’è tempo di dormire” di Tarquinio Merula. E ovviamente il padre, colui che ne determina anche di più il destino di artista certo ma soprattutto di donna emancipata in un mondo in cui sono gli uomini a dettare le regole e a esercitare un arbitrio senza limiti sulle donne, come il suo stupratore Agostino Tassi ma come anche i giudici che la sottopongono a un processo umiliante nel quale lei, la vittima, diventa oggetto di scherno e di tortura della morsa della Sibilla con il rischio di privarla degli strumenti, le mani, attraverso il quale la sua arte prende corpo. Il mondo maschile si esprime per lo più con passaggi strumentali: al padre toccano le Consonanze stravaganti di Giovanni Maria Trabaci, mentre il suo violentatore le si presenta fra i ponteggi del Casino delle Muse sulle note composte da Giovanni Battista Fontana, e quelle di Andrea Falconeri commentano l’innocente voyeurismo del bagno con i fratelli. Invece, la violenza si consuma in silenzio, mentre il dolore di Artemisia, in una stalla avvolta in un abito giallo che porta evidente il segno della ferita, si esprime attraverso i dolenti versi di “Mio ben” dall’Orfeo di Luigi Rossi. 

Il ritratto di Artemisia non può naturalmente prescindere dalle sue tele, che nel flusso narrativo per immagini di Anagoor sono la giovanile Susanna e i vecchioni, la Cleopatra e specialmente la Danae di sensualità giorgionesca, ma soprattutto la caravaggesca Giuditta e Oloferne, nella cui ricostruzione in stile “tableau vivant” (per così dire) esasperatamente sanguinaria e artificiosamente teatrale è inevitabile la proiezione biografica su accompagnamento “marziale” preso a prestito dal Quinto libro delle arie di Stefano Landi. Il tredicesimo capitolo si chiude nella stanza di Artemisia, lei troneggiante e fasciata in un sontuoso abito rosso, fra le sue molte tele rimosse una ad una sulle note del liuto di Kapsberger e della monteverdiana Si dolce è ‘l tormento, da cui proviene il titolo, che chiude con un tono melanconico questa riflessione per immagini sulla caducità del tutto. 

Immagini a parte, curate, così come la concezione dello spettacolo, da Simone Derai, Marco Menegoni e Moreno Callegari, il resto è la musica, che nel suggestivo spazio all’aperto “anti-Covid” della Rocca Brancaleone ritrova il formidabile complesso dell’Accademia d’Arcadia guidato nell’articolato arcipelago di affetti secenteschi dalla competenza e sensibilità di Alessandra Rossi Lürig, che firma anche dei raffinati adattamenti musicali. La voce, limpida ed espressiva, è ancora quella di Silvia Frigato, un’interprete abile nel mantenere equilibrio fra rigore stilistico e spessore emotivo. 

 

Atto secondo: Mephistopheles. Eine Grand Tour,

Mephistopheles. Eine Grand Tour, ossia il lato oscuro di Faust. La creazione più recente di Anagoor, andata in scena in prima assoluta nel Cortile d’Onore di Palazzo Reale nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia, è una riflessione in nero sull’epilogo tragico dello “Streben” faustiano, l’anelito a spingersi oltre il limite del protagonista del poema di Goethe. Umano, troppo disumano. Anche per la loro ultima creazione il gruppo di Castelfranco Veneto sceglie di esprimersi attraverso la musica, quella originale di Mauro Martinuz, e le immagini di acuminata e gelida nitidezza curate da Simone Derai, che firma anche la sceneggiatura, e Giulio Favotto attingendo dai materiali raccolti fra il 2012 e il 2018. Un “Grand Tour” che allude al viaggio di Goethe in Italia nel 1786 ma soprattutto a quello di Faust incapace di penetrare il segreto della natura – «Essa parla incessantemente con noi, e non ci palesa il suo segreto» scriveva Goethe – e dunque pronto a rinunciare alla razionalità della scienza per consegnarsi al suo opposto incarnato da Mephistopheles. 

Mephistopheles - Anagoor -
Foto di Salvatore Pastore

Cabalisticamente strutturato in sette episodi intitolati agli “astri vaganti” – Sole, Luna, Giove, Venere, Mercurio, Marte e Saturno – il “Grand Tour” mefistofelico si apre con un preludio che viene dal Faust prodotto da Anagoor per i teatri di Modena, Reggio Emilia e Piacenza con il Goethe anziano che torna al manoscritto di Faust nella sua residenza di Weimar nel 1832. La prima tappa è il capolinea dell’esistenza, fra gli anziani di un ospizio asettico, sguardi nel vuoto, teste ciondolanti, letti rifatti per accogliere il prossimo, foto staccate dalle pareti e riposte come le tracce della memoria di un’esistenza arrivata al capolinea. La seconda ci porta in un museo popolato di statuaria classica per raccontare dell’esperienza con l’origine, e subito dopo le straordinarie immagini accelerate (anche queste riprese dal Faust di Gounod) di riti lontani eppure vicinissimi dettati da leggi religiose diverse eppure similissime.

Dalla quarta tappa diventa più esplicita la dimensione diabolica del Faust nostro contemporaneo: la nascita programmata meccanicamente con migliaia di uova che si dischiudono al calore prodotto da oggetti meccanici, nascite di maiali in batteria o comunque controllate da procedimenti industriali. Nella quinta tappa lo sguardo dall’alto ci svela la violenza su un territorio ferito per inseguire logiche di profitto ma anche la potenza primigenia di una natura pronta alla ribellione, come sembrano suggerire le straordinarie immagini da drone del cratere del Vesuvio. La sesta ci porta dove la morte si amministra con la meccanica regolarità di un processo industriale: un asettico macello fra carcasse penzolanti di bovini decapitati, scuoiati e sezionati con scientifica precisione da una coppia di macellai-aguzzini. E l’ultima tappa ci riporta ancora in un allevamento per mostrare l’atto riproduttivo di un colossale toro pronto alla monta ma deviato per raccoglierne il seme, hybris suprema dell’uomo, che si arroga anche il controllo della vita. «Noi operiamo costantemente sulla Natura, e tuttavia non abbiamo su di essa nessun potere» scriveva Goethe, ma lo spirito sulfureo di questo Mephistopheles sembra contraddirlo. 

Come in Et manchi pietà, anche in questo Mephistopheles la musica rappresenta un autentico contrappunto alle immagini private di suoni. Ma se nel primo l’antologia di pezzi secenteschi amplifica il portato emotivo delle immagini, il multiforme soundscape creato nell’elettronica live da Mauro Martinuz punta piuttosto a una dimensione atemporale e a-patica come può esserlo l’impersonale ripetitività dei processi industriali, che investe anche il quadro delle religioni (Giove) nei martellanti battimenti metallici in crescendo ai quali si sovrappone l’ancestrale barrito ripetuto di un corno. Mentre invece il sacrificio della bestia (Marte) è commentato dalla solennità di un accordo fisso e iterato, che richiama l’accordo iniziale del Rheingold wagneriano ma, parafrasando Thomas Mann, per descrivere lo stato iniziale di un mondo che ha perduto l’innocenza. Quelle immagini e quella musica ce lo raccontano con lancinante lucidità. 

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