Le sfide di Caterina Barbieri nel cuore della Biennale Musica
Grande successo per la prima settimana di un festival che mette in discussione i meccanismi accademici (non senza qualche contraddizione)
20 ottobre 2025 • 7 minuti di lettura
Venezia, La Biennale
Biennale Musica 2025
11/10/2025 - 25/10/2025È un vero e proprio cambio socio-antropologico quello cui si assiste già negli appuntamenti d’apertura della prima Biennale Musica curata da Caterina Barbieri.
C’era da aspettarselo, senza dubbio, ma la differenza di comunità di spettatori e spettatrici, di modalità di approccio, di “idea” di Festival che si percepisce subito rispetto agli anni passati e, in generale, rispetto all’idea stessa di Biennale Musica (con l’eccezione forse di quella diretta da Uri Caine nel 2003), è davvero epocale.
Come se un ordigno potentissimo avesse spazzato via una larga fetta di quel mondo di ensemble, orchestre, solisti, compositrici e compositori, critici, spettatori di ambito prevalentemente accademico che da sempre abitavano queste lande, sostituiti da un pubblico mediamente tra i 25 e i 45 anni che ha esaurito le prevendite in poche ore come per un concerto pop, che si siede per terra (l’ordigno ha spazzato via anche le sedie e la tradizionale frontalità) o su pochi - scomodi ma ambiti - palchetti ai margini dello spazio del Teatro alle Tese, che accoglie gli artisti con entusiasmo più informale anche se non meno rispettoso, magari con un drink in mano mentre le luci saettano convulse da un angolo all’altro della sala e gli alti volumi invitano i più accorti a usufruire dei tappi di protezione forniti all’ingresso.
Adesso ve l’ho messa giù in modo un po’ “vivace”, ma non si tratta di una semplice nota di colore, quanto piuttosto dell’esito immediato del fatto che l’idea e l’immaginario di Caterina Barbieri vengono comunque da un contesto popular o comunque extra-accademico, anche quando sono serissimi e rigorosi.
E questo si rivela, da queste prima serate di Festival, un elemento davvero “centrale”, che da un lato rende impietosamente evidente quanto faticosamente rigide e in parte anacronistiche fossero di fatto - al netto delle singole proposte artistiche - le concezioni di molte delle stagioni passate, dall’altro sembra spostare la “funzione” stessa della Biennale Musica verso un (ricco) Festival di musica avant-elettronica.
Lo avevamo scritto, anche a più mani, su queste pagine, così come ci eravamo interrogati su questa possibilità nell’introduzione alla nostra intervista alla stessa Barbieri appena nominata, alla fine del 2024. A scanso di fraintendimenti non ci stiamo schierando aprioristicamente a favore del “nuovo” (poi su questo termine magari ci facciamo una chiosa, che male non fa…) o di una rottamazione di polverose giacche di velluto e capelli grigi a fronte di più gioiose sneakers, tatuaggi e tote bags di cotone delle mostre più à la page - ne ragioniamo magari dopo se sia la direzione “giusta” - ma il cambio di mood è oggettivamente piuttosto impietoso.
Lo si percepisce già dalla performance inaugurale, con un corteo di barchini che entra nel bacino dell’Arsenale e accompagna - complice un tramonto spettacolare - Chuquimamani-Condori (l’artista precedentemente conosciuta come Elysia Crampton e ora conosciuta come Leone d’argento) su un palchetto esterno dove fare esplodere l’energia chiassosa del suo electro-folk andino e lisergico. Lo storytelling del corteo - che dovrebbe connettersi con il tessuto sociale cittadino già raccontato dal regista Yuri Ancarani nel film Atlantide - è inversamente proporzionale al suo esito artistico, mentre la performance dei Los Thuthanaka, il duo composto da Chuquimamani-Condori con il fratello è coinvolgente e riuscita, quasi innervata di una forza liberatoria e psichedelica e di cui aveva già parlato Ennio Bruno qui.
La prima serata prosegue con la prima di Travelling Light di Rafael Toral (trovate la sua intervista qui): la dilatazione di alcuni celebri standard jazz, da “God Bless The Child” a “My Funny Valentine”, interagendo con flauto, sax, clarinetto e flicorno, è calibratissima e molto bella, regalando a un pubblico attento uno dei momenti più accoglienti della interessantissima produzione del musicista portoghese.
Dopo un cambio palco piuttosto lungo è la volta del sax solo di Benedik Giske: molto acclamato per la sua performatività, è di fatto una versione queer di Colin Stetson, con arpeggi minimalisti, respirazione circolare e microfoni a contatto che creano un reticolo in cui vulnerabilità e sovversività (per citare due termini che spesso accompagnano i suoi testi promozionali) sono più dichiarate che percepite in una pratica ormai poco originale.
Ottima accoppiata quella della domenica sera: William Basinski ripensa dopo 20 anni lo struggente The Garden of Brokenness in una versione per 3 pianoforti, percussioni e rumori di vaporetto: a condurre le danze c’è uno strumentista favoloso come Adam Tendler, che tiene tutto in una dolente sospensione. Un classico, sempre molto bello.
Decisamente meno soave, ma direi decisamente tra le cose migliori ascoltate, è invece il solo di Speaker Music/Deforrest Brown, Jr., un vero e proprio tsunami di techno destrutturata e potentissima, che crepita a volumi quasi dolorosi a materializzare il complesso apparato teorico dell’artista afroamericano (protagonista anche di un momento polemico durante l’incontro con il pubblico del giorno successivo). Musicalmente molto bene!
Decisamente meno riuscita la performance di Silencio di Moritz Von Oswald. Il recente lavoro per elettronica e coro a 16 voci (qui quello dell’ottima Cappella Marciana) sembra piuttosto sfilacciato e la desiderata integrazione tra l’elemento vocale umano e quello elettronico è poco convincente. In apertura Luka Aron (Biennale College) rielabora suoni di campane concentrandosi su sugli spettri inarmonici instabili dei medesimi, un procedimento interessante quanto ancora un po’ rigido poi nel processo compositivo.
Al Teatro Malibran davvero notevole la performance del Dither Quartet, che ha reso in modo scintillante il mondo sonoro di Laurie Spiegel trascrivendone le seminali esplorazioni di The Expanding Universe per quartetto di chitarre elettriche. I precisi reticoli sonori del lavoro della compositrice di Chicago trovano nella distribuzione tra le corde degli strumenti una tridimensionalità che ce ne mostra - se mai ce ne fosse il bisogno - la traslucente bellezza.
Seconda parte della serata dedicata all’ormai classico Venice di Fennesz, che nel 2024 ha compiuto 20 anni. Un po’ sperduto “fisicamente” in una scenografia fatta di casse, attrezzi e strutture del retropalco, lontano dal proscenio con la sua chitarra e l’elettronica (quella della staticità performativa di molti degli appuntamenti è una problematica che forse richiederebbe più buio e meno giochi di luce e fumo), il musicista austriaco ha riproposto le musiche di quel progetto coprendole di una bruma glitch ancora più densa dell’originale, inizialmente un po’ incontrollata e fuori fuoco e poi via via più convincente, dando il meglio nella seconda parte di un concerto anche qui a altissimo volume.
Pomeriggio pop quello al Teatro Piccolo Arsenale, che abbinava la guatemalteca Mabe Fratti al progetto giapponese Asa-Chang & Junray, un’accoppiata/spaiata più da Le Guess Who? o C2C che non propriamente Biennalesca, ma di grande soddisfazione.
Mabe Fratti conferma di essere un’artista importante, pienamente in controllo del suo violoncello e del canto, in sintonia con l’irruenza post punk dei compagni d’avventura a chitarra e batteria, per un set che ce ne restituisce nell’arco di un’ora tutte le sfumature.
Decisamente riuscito anche il tuffo nel mondo bizzarro di Asa-Chang & Junray, quest’ultimo retrofuturistico e scenografico oggetto elettronico che interagisce con violino, flauto, tromba e wavedrum. La sintesi tra tradizione folk e frullato post-modern, tra manipolazione in tempo reale dei suoni e il balbettio sillabico della voce sintetica è al tempo stesso buffa e perturbante (come nell’interpolazione di un grido davvero agghiacciante all’impasto della loro “hit” “Hana”). Non è facilissimo ascoltarli da queste parti e ne valeva decisamente la pena.
C’è il tempo solo per un panino al volo prima di immergersi in uno dei momenti più attesi di questa prima settimana di Biennale: la performance di Susanne Ciani e Actress. Figura di culto per il mondo dei sintetizzatori (grazie al suo rapporto diretto con Buchla e a una carriera di grande spessore), la Ciani incanta non solo per come il tempo per lei non passi, ma soprattutto per la capacità di generare suoni sempre iridescenti, che nell’incontro con i beats di Actress diventano un cuore pulsante attorno a cui il pubblico si accosta come fosse un fuoco cui scaldare il corpo e la mente. Molto bello, così com'è sembrata felicemente a fuoco la maratona (io ne ho ascoltata solo una parte) meditativo/estatica del finlandese Aleksi Perälä, con le sue originali frequenze.
Una prima settimana di Biennale Musica (chiusa con il bel concerto di Meredith Monk e la giornata site-specific “Star Chamber” di cui vi racconta Stefano Nardelli) che ci fornisce già molti spunti.
Caterina Barbieri è piombata su queste terre con un compito facilissimo e complessissimo al tempo stesso: aprire finalmente le finestre e portare aria nuova a una manifestazione che negli ultimi 20 anni si era sempre più “incartata” in un’evidente autoreferenzialità è un gesto di doverosa semplicità, così come rendere conto, nel continuum di una manifestazione che ha una sua identità storicizzata, della meravigliosa varietà creativa che in tutto questo tempo si è mossa a partire da altri contesti e altre fruizioni, è assai più insidioso di quanto si possa pensare.
Perché tutte queste musiche e pratiche nel frattempo, negli anni, hanno trovato a loro volta altri contesti, economie, pubblici e non è che trasferirle - con più o meno ricerca del nuovo, fattore che quest’anno è stato giocato forse sin con troppa prudenza - dentro il contesto e le economie istituzionalizzate dell’Arsenale sia una cosa che funziona a scatola chiusa, se si vuole essere anche momento e spunto di riflessione.
E che cosa voglia “essere” la Biennale Musica oggi (per non dire di che cosa voglia dire “musica contemporanea” in uno scenario globale che decolonizza ma resta ancorato ai contraddittori modelli post-capitalistici) è una domanda che non vuole essere provocatoria - tantomeno nei confronti di Barbieri, che del buon lavoro di quest’anno potrà fare tesoro per le programmazioni future - ma naturale: se un ottimo festival avant/elettronica/pop (e per colmare i “ritardi cronici” delle programmazioni passate rispetto all’attualità potrebbero non bastare diverse edizioni) o anche, come sarebbe nel dna di Biennale, maggiormente “antenna” di traiettorie e di otherness non instagrammabili che ancora non hanno avuto il pieno riconoscimento del “sistema” dell’arte (non a caso molto rappresentato in platea).
Una sfida nella sfida, ma potrebbe valerne la pena!