L’elettronica che parte dal jazz apre la Biennale Musica
Intervista con il chitarrista e compositore Rafael Toral
06 ottobre 2025 • 5 minuti di lettura
Onore e onere di aprire la Biennale Musica 2025, la prima sotto la direzione - molto attesa per ragioni anche piuttosto differenti - di Caterina Barbieri, spetta a un artista che il mondo della sperimentazione elettronica conosce bene sin dagli anni ‘90, il portoghese Rafael Toral.
Tra i pionieri di una pratica elettronica che si incominciava a ibridare con modalità decisamente antiaccademiche con il jazz, il rock, l’ambient e il minimalismo dei decenni appena precedenti, si è guadagnato con il tempo una solida reputazione, specialmente con un ambizioso progetto, lo Space Program, che affronta la musica elettronica attraverso la lente del silenzio, producendo una musica che è stata definita “melodica senza note, ritmica senza battito, familiare ma strana, meticolosa ma radicalmente libera - piena di paradossi ma ricca di chiarezza e spazio”, un’elettronica capace di emotività e umanità nonostante la freddezza della fonte.
Tra i tanti nomi “importanti” nel cartellone allestito da Caterina Barbieri, ci è sembrato che quello di Toral, non solo per la collocazione all’inizio del programma, ma anche per la sua statura teorico-pratica, fosse perfetto per una chiacchierata sul suo lavoro.
Vorrei iniziare dal lavoro con cui inaugurerai questa Biennale Musica, Traveling Light, che esce anche come album. Ciò che colpisce subito è l’idea di lavorare su temi celebri del repertorio jazz, standard come Body and Soul ed Easy Living. Come è nato questo progetto?
«Questo lavoro, come molti altri miei, è nato da diversi fili intrecciati di interesse, osservazione e riflessione. Ma, in sostanza, è il risultato dell’innamoramento per il suono delle armonie del jazz classico, che ha influenzato anche Spectral Evolution in forma astratta, mentre Traveling Light ha un legame più concreto, attraverso le canzoni stesse.
Un altro filo conduttore è stata l’osservazione che, se vuoi davvero gustare il suono di un accordo, puoi preferire sostenerlo, così da trasformarlo in uno spazio in cui entrare. Per questo ho rallentato molto gli arrangiamenti, stirando lo swing fino al limite, prima che si spezzi».
Come lavori dal vivo su questi materiali insieme agli altri musicisti?
«Ho ampliato gli arrangiamenti oltre i loro assoli in ciascun brano, così che tutti i musicisti siano più presenti. Un momento speciale è My Funny Valentine, in una versione con quartetto di fiati».
Di recente ti sei rifocalizzato sulla chitarra, dopo un lungo periodo dedicato all’improvvisazione elettronica. Come si è evoluto il tuo rapporto con lo strumento?
«Per molto tempo ho considerato la chitarra, con l’elettronica che la circondava, come uno strumento a sé, fatto di manopole e pedali, e mi concentravo soprattutto sui suoni che poteva produrre. Oggi invece il mio rapporto con lo strumento è cambiato e mi pongo domande diverse. La più importante è: “Che cosa voglio suonare?”. La risposta dipende anche da fattori esterni, come l’energia che riesco a metterci. L’approccio è stato radicale: ho capito che non potevo continuare a suonare la chitarra senza abbracciarne la cultura, che in passato avevo sempre evitato. Ora sto imparando cose che avevo ignorato per decenni».
Il rapporto tra jazz, improvvisazione ed elettronica ha ormai una storia di diversi decenni. Quali potenzialità vedi ancora da esplorare e quali limiti hai incontrato?
«Il jazz è un modello straordinario per pensare a come la musica possa essere costruita. Credo che qualsiasi forma di improvvisazione occidentale che non abbia imparato nulla dal jazz sia destinata a rimanere limitata. Il potenziale, però, è circoscritto solo dalla creatività umana. Personalmente penso che le strade aperte dal Space Program abbiano ancora molto da offrire. Io l’ho portato fin dove potevo, ma i rigori e la disciplina di quell’approccio non sembravano attraenti per molti: la maggior parte preferisce che le cose siano facili. Sono convinto che lo sviluppo più fertile della musica elettronica non passi attraverso automazione, tecnologia e sistemi generativi, né attraverso l’abbandono al caos incontrollato, ma attraverso intenzione e decisione umana — esattamente come avviene nel jazz. C’è ancora molto spazio davanti a noi, purché restiamo consapevoli della nostra evoluzione e vi ci impegniamo. L’evoluzione umana non è certo finita».
Quale idea di “suono” ti guida? Il tuo nome è legato al rock, all’ambient, al free jazz e alla musica contemporanea. Puoi descrivere i confini — se ci sono — della tua pratica?
«Il suono è il filo conduttore. Il suono di circuiti caotici, di un violoncello, della musica rock, degli accordi jazz, di un’orchestra, di un aereo, di una foresta pluviale. Amo tutto questo.
Se voglio produrre qualcosa di significativo, per amore del suono, deve inserirsi nel flusso della cultura musicale cui è più vicino. Potrebbe essere free jazz, ambient o, più probabilmente, un ibrido. Non mi sono mai sentito legato a stili o generi precisi, e spesso le mie ricerche mi spingono verso forme musicali ancora inesplorate. Questo mi complica la vita, perché richiede molto lavoro e comporta muoversi nell’incertezza. Tendo a superare i confini stilistici, pur cercando di mantenere sempre coerenza e identità».
Fai parte di una generazione di musicisti sperimentali che hanno lasciato un segno profondo, al quale — con le dovute differenze — si sono ricollegate anche le generazioni successive. Vedi oggi artisti più giovani che proseguono quella strada?
«Vedo percorsi e segni molteplici. Una delle cose che apprezzo nei colleghi della mia generazione è che ciascuno ha aperto una strada nuova, in base a ciò che era necessario o sensato nel proprio contesto, senza aderire a codici o programmi estetici. Oggi le soluzioni sono tante: alcune proseguono quei fili, altre sono nuove, altre ancora sono raffinatezze di percorsi specifici. Ma è un tempo diverso. Alcuni linguaggi si sono standardizzati, con risultati piuttosto noiosi: la diffusione della scena “laptop” negli anni 2000 è stato il primo segnale. Trovo che i giovani siano spesso più intraprendenti e tecnicamente preparati di quanto lo fossimo noi, ma vedo meno determinazione e lucidità. Forse è una caratteristica comune a ogni generazione. Oggi alcune cose sono molto più semplici rispetto agli anni ’90, altre molto più difficili. I giovani devono confrontarsi con questa nuova realtà, e alcuni lo fanno con grande forza. Li rispetto molto».
Qual è la tua posizione sull’intelligenza artificiale e il suo uso nella creazione musicale?
«L’intelligenza artificiale è, in sostanza, una macchina di furto sofisticata, potente e universale. È insopportabile. Non riesco a credere che sia realtà, e che sia perfino legale. La considero in linea con il mondo senza regole e dominato dal profitto in cui viviamo, con il saccheggio delle terre e delle risorse da parte dell’Impero occidentale. Quando diventerà normale consumare musica generata dall’IA, la vita di musicisti, etichette e negozi di dischi (e probabilmente anche di riviste e scrittori) sarà ancora più dura di quanto già non sia.
Nella creazione musicale può avere senso come strumento per alcune elaborazioni specifiche, ma non per comporre. Se utilizzi una linea di basso generata dall’IA, qualunque sia il genere, sarà stata rubata da qualche parte. Non voglio sembrare conservatore, ma penso che sia roba per pigri. Nel complesso, un disastro enorme».
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
«Sto lavorando a Long Ways, un progetto molto ambizioso: un ambiente interamente dedicato alla chitarra, suonato dal vivo. Sono anche molto concentrato sui concerti con il nuovo repertorio per chitarra. Il nuovo brano Layers fa parte di questo percorso, ed è anch’esso interamente dal vivo».