Le geometrie degli affetti del Tamerlano 

Händel per l’Oper Frankfurt al Bockenheimer Depot con la regia di R. B. Schlather

Tamerlano 
Tamerlano 
Recensione
classica
Bockenheimer Depot, Francoforte
Tamerlano 
07 Novembre 2019 - 24 Novembre 2019

Il Tamerlano andato in scena al Bockenheimer Depot per la stagione dell’Oper Frankfurt è agli antipodi della recente messa in scena dell’opera händeliana vista un paio di stagioni fa al Teatro alla Scala. Se a Milano, Davide Livermore puntava sul grande spettacolo con sontuose scenografie e scene di massa attorno a una drammaturgia reinventata e proiettata nella Russia rivoluzionaria, nella dimensione più ridotta dello spazio un tempo destinato a ricovero di tram l’americano R. B. Schlather, al suo debutto europeo, sfronda al massimo grado la vicenda, spogliandola della cornice storica, poco più di un pretesto in quest’opera fatta delle consuete geometrie di affetti contrastanti e contrastati. Al centro di tali geometrie è Asteria, figlia dello sconfitto sultano ottomano Bajazet, promessa al principe greco Andronico ma bramata dall’arcinemico trionfante, il tartaro Tamerlano, malgrado le promesse di quest’ultimo a Irene, principessa di Trebisonda. Anche in questo caso la Bitinia del 1403 dopo Cristo del libretto di Nicola Francesco Haym è trasfigurata in uno spazio astratto nella scenografia di Paul Steinberg, che circoscrive la grande aula rettangolare con la tribuna degli spettatori e lo spazio per l’azione in quattro pareti di legno biancastro con una grande gabbia metallica destinata all’orchestra. Quello sullo spazio è l’intervento più significativo e originale di questa nuova produzione, altrimenti guidata dal giovane regista secondo una tendenza a un concettualismo piuttosto sterile e molto di maniera, privo nel complesso di colpi d’ala e di originalità di concezione. Quasi che l’atteggiarsi pensoso bastasse a dare profondità di pensiero. 

Non aiuta nemmeno una locandina con parecchi punti deboli, a cominciare dalla coppia dei sovrani rivali in battaglia, Tamerlano, un Lawrence Zazzo ben poco disinvolto come cowboy perverso, come lo vede il regista, e parecchio approssimativo sul piano della resa vocale, e Bajazet, un Yves Saelens completamente estraneo allo stile händeliano e pochissimo avvincente sul piano scenico, compreso nella celebre scena del suicidio del sottofinale, che in genere fa privilegiare la dimensione scenica nella scelta dell’interprete (ma il primo interprete, il modenese Francesco Borosini, doveva davvero avere temperamento attorale da vendere oltre che mezzi vocali di grande classe). Molto meglio invece il comparto femminile con l’Asteria di temperamento di Elizabeth Reiter, di gran lunga la migliore interprete della serata, e l’Irene delicata di Cecelia Hall, ma un po’ più di fuoco ci sarebbe voluto. Piuttosto debole l’Andronico di Brennan Hall, controtenore di buone speranze ma dalla dizione a dir poco approssimativa (e quando si decide, infelicemente, di trasformare come in questa produzione molti recitativi in parti recitate i difetti si sentono tutti) e pertinenti gli interventi di Liviu Holender come Leone, impiegato come inserviente per gran parte del tempo.

Non memorabile la prova della Frankfurter Opern- und Museumsorchester, specialmente nella prima parte della serata, segnata da più di un inciampo nell’intonazione e da una certa mancanza di coesione, e in deciso recupero nella seconda parte come il direttore Karsten Januschke, soprattutto attento a tenere il passo. 

Nel complesso una produzione non memorabile, salutata comunque dal pubblico con un certo calore. 

 

 

 

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