La "Norma" neoclassica di Fabio Luisi inaugura il Festival della Valle d’Itria
Due soprani per i ruoli principali, come proprio a Martina Franca si è fatto per la prima volta in epoca moderna
Il Festival della Valle d’Itria ha inaugurato la sua cinquantesima edizione rievocando uno dei suoi spettacoli più memorabili, la Norma del 1977, quando l’allora direttore artistico Rodolfo Celletti decise di tornare per la prima volta in epoca moderna ad affidare la parte di Adalgisa ad un soprano e non ad un mezzosoprano, una buona pratica che si è poi lentamente diffusa ma non è ancora seguita sempre ed ovunque, come sarebbe auspicabile.
La messa in scena è stata ora affidata alla regista Nicola Raab e alla scenografa e costumista Leila Fteita. La scena - unica e semplice, come impone il palcoscenico provvisorio che ogni estate si allestisce nel cortile del Palazzo Ducale di Martina Franca - consiste di una parete di fondo di colore rosso pompeiano alquanto sbiadito, percorsa da grandi crepe, che colloca l’opera nell’antichità o piuttosto nel sogno neoclassico di far rivivere un mondo scomparso, che era stato alimentato dall’ancora recente scoperta di Pompei. Su questo fondale vengono proiettate una grande quercia per il sacro bosco di Irminsul e alte fiamme per il rogo finale. Null’altro. I costumi sono ispirati alla classicità, cioè neoclassici: riccamente decorata e di un bel rosso bordeaux la veste di Norma, semplice ed adolescenziale la tunica di Adalgisa. Unica stravaganza, le parrucche di Clotilde e Adalgisa.
La regia, lontana sia dalle astrusità oggi alla moda sia dai gesti melodrammatici e dagli atteggiamenti di nobile ma manierata tragicità old style, è talmente misurata che potrebbe apparire statica ad uno spettatore distratto. In realtà, è sempre molto viva e rivela attraverso tanti piccoli gesti e sguardi appena accennati i sentimenti che le due protagoniste vorrebbero nascondere. E sono i sentimenti di due donne innamorate, che, dopo essersi date anima e corpo all’uomo che amano (il solito cinico mascalzone, indifferente fino all’ultimo alle sofferenze che provoca), si scoprono tradite. Norma è più matura di Adalgisa ma entrambe sono egualmente smarrite, deboli e indifese di fronte al tradimento di Pollione. Dunque la vicenda di queste due donne non è in realtà una tragedia coturnata ma un dramma borghese celato sotto vesti neoclassiche. In questo è in sintonia con l’interpretazione del direttore d’orchestra.
Come la tradizione, considerata da tanti una verità indiscutibile, aveva imposto un mezzosoprano nella parte di Adalgisa, così nel tardo Ottocento e nel primo Novecento si erano date all’orchestra di Bellini tinte tardoromantiche. All’Orchestra del Teatro Petruzzelli di Bari, in ottima forma, Fabio Luisi chiede invece sonorità terse e levigate e dinamiche non troppo forti e violente, abbinate a curve melodiche delicatamente flessuose. La sinfonia iniziale perde il tono bandistico che spesso le viene dato e rivela come la sua orchestrazione - la cui semplicità spesso è considerata ancora un difetto, come se Bellini fosse l’ultimo della classe - sia invece raffinata, per esempio negli intrecci degli strumentini. È un’orchestra che ha una levigatezza e una pura bellezza di stampo neoclassico anche quando Norma sale al rogo, ma può essere molto corrusca, come quando sostiene ed eccita le voci del coro in “Guerra, guerra”, che, forse in conseguenza dei tempi che viviamo, appare l’esplosione di un istinto primordiale e dunque incancellabile, ma si conclude con una sorprendente e meravigliosa trasfigurazione melodica e armonica, che lascia adito alla speranza. È soprattutto un’orchestra che sostiene – non semplicemente accompagna – le voci e completa con i suoi timbri e le sue armonie le sublimi melodie belliniane, che sempre si muovono in una sfera di superiore bellezza, anche nei contrasti più drammatici e perfino convulsi: questo è appunto neoclassicismo, di stampo canoviano. È auspicabile che il Bellini di Luisi faccia scuola.
Norma è Jacquelyn Wagner, americana di nascita e tedesca di formazione, il cui repertorio si basava fino a ieri principalmente su Richard Strauss, Wagner, Beethoven e anche Mozart. La voce è limpida e ferma, il timbro di un bel metallo argenteo, i vocalizzi precisi ma leggermente meccanici, gli acuti sicuri tranne un paio di volte (ci riferiamo alla seconda recita) nella sua grande scena del primo atto. Più che una sacerdotessa, la sua Norma è una donna delusa e dolente per il suo sogno d’amore infranto: fin dal suo apparire in scena si avverte in “Casta Diva” una vena melanconica, come se chiedesse all’astro celeste di rivolgere la sua protezione non tanto al popolo dei Galli ma a lei stessa: un’ipotesi confermata dall’invocazione “Ah! bello a me ritorna” posta da Felice Romani e Bellini all’inizio della successiva cabaletta, che potrebbe sembrare piuttosto incongrua e invece rivela che, mentre pregava la luna, Norma aveva - per così dire - la testa altrove. Ma la Wagner raggiunge i vertici nei momenti in cui si confronta con Adalgisa, particolarmente nel loro primo duetto, quando in lei riconosce se stessa da giovane, rivive commossa i suoi sentimenti d’un tempo e li confronta con le delusioni presenti. Colpisce come due voci tanto diverse possano fondersi così completamente: il prodigio lo fanno Bellini ma anche la Wagner e Valentina Farcas (Adalgisa), nata come soprano leggero (Adina, Zerlina, Nannetta sono i ruoli dei suoi esordi) ed ora divenuta un lirico-leggero dalla voce luminosa e dolce, limpida e vibrante, che alla linea di canto immacolata unisce un’interiore ma intensa espressione. Assolutamente perfetta.
Airam Hernandez è un tenore solido e allo stesso capace di flettere la sua voce per tornire le melodie belliniane, ma non si può chiedergli di andare molto in profondità nell’interpretazione di un personaggio superficiale per definizione come Pollione. Gli siamo comunque grati di non aver cantato - a differenza di tanti suoi predecessori, anche celeberrimi - la sua aria d’entrata “Meco all’altar di Venere” come se fosse un’esibizione muscolare o un proclama militare, mentre in realtà è un sogno d’amore. Goran Joric (Oroveso) ha iniziato in modo preoccupantemente traballante, ma si è presto ripreso e ha assolto degnamente il suo compito. Nei ruoli minori bene Zachary McCullach (Flavio) e benissimo Saari Sugiyama (Clotilde). Le uniche voci italiane erano quelle del Coro del Teatro Petruzzelli, che è andato a fasi alterne, probabilmente perché in certi momenti era diviso in gruppi collocati a grande distanza tra loro in due tribune ai lati del palcoscenico o in fondo alla platea, quindi con problemi di sincronia e di equilibri sonori tra loro stessi e con l’orchestra.
Tutto esaurito e grande successo, com’era giusto che fosse.
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Apprezzate le prove di Chailly, Netrebko, Tézier e del coro, interessante ma ripetitiva la regia di Muscato