Il sonno di Ginevra

A Drottningholm un riuscito allestimento dell’Ariodante di Händel con Ann Hallenberg protagonista

Ariodante (Foto Mats Beckar)
Ariodante (Foto Mats Beckar)
Recensione
classica
Drottningholm, Slottsteater
Ariodante
03 Agosto 2019 - 19 Agosto 2019

Prima arriva l’annuncio della morte dell’amatissimo sposo promesso Ariodante e subito dopo l’accusa bruciante di esserne la causa con la sua presunta infedeltà. Per Ginevra il colpo è brutale, di quelli che fanno perdere il senno: “Chi sei tu? chi fu’ quelli? e chi son io?” Invoca la morte ma la morte non viene. E lei si addormenta. È un sonno agitato il suo, nel quale i sogni piacevoli combattono contro quelli funesti. “Non ponno aver quiete mie pene anche nel sonno”, si lamenta Ginevra, ripresa coscienza per un attimo prima di ripiombare nel suo torpore. Tutt’altro che una fuga, il sonno di Ginevra è lo squarcio nell’arcadica “monotona beatitudine” (la definizione è di Charles Burney) nella quale si beano i due amanti lungo tutto il primo atto, quello più ancorato a modelli consueti. La porta della verità la apre l’esperienza del dolore – quello di Ariodante per il presunto tradimento di Ginevra (“Scherza infida”), del re per la rivelazione (falsa) della sfrontatezza della figlia e Ginevra per la perdita degli affetti più cari. E la musica di Händel traduce in quasi 45 straordinari minuti il dolore e lo sgomento delle certezze che si sgretolano. E a quel punto l’illusione, anche quella teatrale, si dissolve.

In maniera molto intelligente Nicola Raab, regista del nuovo allestimento dell’Ariodante nel teatro di corte di Drottningholm, traduce quella transizione nello smontaggio progressivo dell’illusionismo barocco fino alla nudità della scena e nella metamorfosi di personaggi in persone. Il primo atto è un tripudio di ipertrofiche crinoline e vertiginose parrucche, disegnate dall’estro creativo di Gesine Völlm, e un gran succedersi di quinte dipinte con ambienti meravigliosi e scorci immaginifici sciorinati con estro filologico dallo scenografo Linus Fellbom. Il secondo atto rimbalza l’immagine della bella sala rococò sulla grande superficie specchiante sul fondo scena in un gioco illusionistico caro ai barocchi che esalta la vana artificiosità del gioco del teatro. Nel terzo, fondali e quinte dipinte svaniscono svelando i nudi telai di legno nella lignea nudità della scena per la “cieca notte” nella quale cadono gli inganni di Polinesso. La fuga nel sonno di Ginevra viene finalmente interrotta (“Sogno? Veglio? Che fo? Vivo? O deliro? Ma come? Oh ciel! ...”) per il frettoloso lieto fine con un gran viavai di macchinisti che montano rapidamente le quinte dipinte del meraviglioso salone che fa da sfondo al festoso finale che sa molto di posticcio.

È molto abile la regista a non farsi intrappolare nel gusto restaurativo che trionfa a Drottningholm in uno spazio conservato con cura museale. Anzi, quel gusto lo tratta con grande licenza poetica e soprattutto lo piega a scelte drammaturgiche coerenti, infedelmente fedeli alla geniale opera di Händel. Con simile libertà di ispirazione Caroline Finn sviluppa una coreografia ironicamente restaurativa per il primo atto e più legata ai modi del teatro danza nel seguito.

Di ottimo livello anche il cast vocale, che ha in Ann Hallenberg un Ariodante disegnato con totale padronanza stilistica e con grande espressività. Doti che possiede anche Roberta Mameli, alle quali si aggiunge una grande scioltezza scenica che conferiscono alla sua Ginevra un rilievo del tutto speciale. Come Polinesso si ritrova con piacere il controtenore Christophe Dumaux, impeccabile nelle acrobazie tecniche affrontate con la sicurezza di uno strumento vocale di grande duttilità così come nei movimenti scenici che coinvolgono il suo doppio coreutico (Jonathan Sikell) in un intrigante e tormentato pas de deux. Alla sua luminosa Dalinda Francesca Aspromonte regala ricchezza di colori e sensualità insolite, mentre Martin Vanberg rivela qualche fragilità tecnica nelle impervie linee vocali di Lurcanio e Johannes Weisser abbozza un re poco regale e corrivo nell’espressione. La direzione di Ian Page è precisa ed efficiente ma poco generosa sul piano delle emozioni così come la prova dei bravi strumentisti dell’ensemble orchestrale su strumenti originali del Teatro di Drottningholm.

Tutti esauriti i 450 posti della piccola sala. Caldo successo.

 

 

 

 

 

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