Dittico verista secondo Delbono

Opera di Roma: Cavalleria e Pagliacci con la direzione di Carlo Rizzi

Pagliacci (foto Yasuko Kageyama)
Pagliacci (foto Yasuko Kageyama)
Recensione
classica
Teatro dell’Opera, Roma      
Cavalleria rusticana/Pagliacci
05 Aprile 2018 - 15 Aprile 2018

Si dirà: la solita accoppiata Cavalleria-Pagliacci. Ma, contando anche quella attuale, a Roma la si è vista solo tre volte, a cinquant’anni di distanza l’una dall’altra! Quindi i romani sono accorsi, pensando che forse nella loro vita non avranno più un’altra occasione di vederla, facendo man bassa dei biglietti per le sole cinque recite programmate. E hanno fatto bene, nonostante qualcuno alla prima si sia pentito e abbia fischiato. O forse non si è pentito affatto ed è invece contentissimo, perché era andato a teatro proprio per fischiare e ora può essere soddisfatto di sé. Un solo commento: ogni opinione va rispettata, quel che non si può ammettere è che un manipolo di persone impediscano alle altre mille e seicento di ascoltare come è loro diritto, senza essere disturbati da urla e schiamazzi.

Oggetto delle proteste era Pippo Delbono, che, come cercheremo di spiegare, è stato l’autore di una messa in scena sostanzialmente rispettosissima della musica e perfino – nonostante il solo nome di questo regista “d’avanguardia” sia bastato a far saltare la mosca al naso dei tifosi del verismo, che sono la parte più conservatrice del mondo dell’opera – anche piuttosto tradizionale.

Qualcosa di diverso c’era, ma molto discreto, come i brevi interventi di Delbono, che prima di Cavalleria rusticana e dei due atti di Pagliacci, è sceso in platea per dire brevemente di alcuni suoi ricordi collegati alla pasqua e al mondo del circo, quindi riferibili all’ambientazione delle due opere. Ricordare emozioni e sentimenti personali era indirettamente un invito agli spettatori a rispecchiarsi in quel che stavano per ascoltare, ma preludeva anche a qualcosa di totalmente diverso, una pirandelliana confusione tra realtà e teatro, ribadita dalla successiva presenza (assolutamente non invadente) del regista in palcoscenico durante lo spettacolo, per dare indicazioni a protagonisti, coro e figuranti. Ma questi accenni pirandelliani sono molto discreti e fondamentalmente la Cavalleria rusticana di Delbono ha la severità e l’essenzialità di una tragedia greca. La scena di Sergio Tramonti è una grande sala nuda dalle pareti rosse, forse il foyer fatiscente di un teatro in disuso; il coro vestito di nero (costumi di Giusi Giustino) è quasi immobile, allineato sul fondo o seduto ai lati; i protagonisti, nonostante i gesti ampi e plateali tipici dei popoli mediterranei, sono chiusi in loro stessi, isolati l’uno dall’altro, non entrano mai in contatto: in questo dramma di grandi passioni non ci sono sentimenti, non c’è amore, ed è la musica stessa a dirlo.

La realizzazione musicale va infatti nella stessa direzione. Anita Rachvelishvili sfoggia una voce dal timbro sontuoso (appena qualche tensione negli acuti) e anche Alfred Kim (Turiddu) e Gevorg Hakobyan (Alfio) hanno voci di notevole qualità e soprattutto molto robuste. Ma la loro interpretazione, come anche quella del coro e dell’orchestra, non coinvolge emotivamente, perché non c’è un vero sviluppo delle psicologie e dei sentimenti dei personaggi: si veda come i momenti più drammatici si risolvono inevitabilmente nel fortissimo, con un procedimento quasi meccanico. Non è un’annotazione negativa: questo distacco emotivo rende più tragica e potente la vicenda che si svolge sotto i nostri occhi.

Delbono da una parte collega Cavalleria Pagliacci– stessa scenografia, simile mescolanza di vita e teatro, qui ovviamente chiesta a chiare lettere dal soggetto -  e dall’altra parte differenzia sottilmente ma nettamente queste due opere spesso erroneamente considerate gemelle. Per quanto al libretto e alla musica di Leoncavallo vengano solitamente attribuite alcune ingenuità, quest’opera è à la page con alcune tendenze europee del tempo e per alcuni aspetti addirittura precorre sviluppi successivi: Delbono non se li lascia sfuggire. Ecco allora il teatro nel teatro ma anche l’espressionismo, la marionetta, il circo, il surrealismo. Ed ecco naturalmente Delbono, con alcuni suoi caratteri inconfondibili, presenti d’altronde anche in Cavalleria, come la tenera presenza di Bobò, il piccolo e ormai molto anziano attore sordomuto, che il regista ha salvato da un manicomio dove per cinquant’anni era stato abbandonato come uno scarto dell’umanità. 

Molto diversa anche la realizzazione musicale. Assolutamente superlativi, Carmela Remigio (Nedda) e Fabio Sartori (Canio) interpretano con maggiore umanità questi personaggi, che forse hanno minor statura di quelli di Mascagni, ma sono più vivi, più mobili, più reattivi. Gevorg Hakobyan (Tonio) anche qui canta in modo corretto ma resta estraneo al dramma. Benissimo in entrambe le opere i comprimari Anna Malavasi, Martina Belli, Matteio Falcier e Dionisio Sourbis. 

Carlo Rizzi dirige con grande attenzione, senza una sbavatura. Asciutto ed essenziale ma potente in Mascagni. Più mosso e colorato in Leoncavallo, la forza della cui musica sta (come mutatis mutandis in Mahler, che infatti amava molto Pagliacci) nella mescolanza e nella contaminazione dei vari piani espressivi e stilistici.

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