Da Honeck una lezione sul classicismo viennese

Roma, Accademia Nazionale di Santa Cecilia: un imprevisto iniziale ha fatto cominciare in ritardo il concerto, ma l’attesa è stata ripagata pienamente

Manfred Honeck
Manfred Honeck
Recensione
classica
Roma, Parco della Musica – Sala Santa Cecilia
Manfred Honeck
13 Dicembre 2018 - 15 Dicembre 2018

Il 2018 dell’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia, da poco tornata da una lunga tournée in estremo oriente, si sta avviando alla conclusione con due programmi diretti da Manfred Honeck, che da qualche anno è entrato a far parte del gruppo ristretto di direttori che tornano ogni anno a Roma. Il pubblico di Santa Cecilia ha ormai imparato a conoscerlo come erede della grande tradizione viennese – è forse il maggior direttore austriaco attuale – e ad apprezzarlo nel suo giusto valore, sebbene non faccia nulla di appariscente per imporsi all’attenzione e strappare l’applauso.

Il primo dei suoi concerti di questi giorni aveva un programma che più viennese non si può, imperniato sui tre sommi del classicismo viennese: Haydn, Mozart, Beethoven. L’inizio è stato un po’ fortunoso, poiché molti del pubblico e dei professori d’orchestra e il direttore stesso sono arrivati in ritardo, a causa del traffico paralizzato dalla “vivacità” dei tifosi di Francoforte, che in quello stesso momento si stavano recando alla partita con la Lazio (auditorium e stadio sono molto vicini, lo diciamo per chi non è di Roma). Comunque, sebbene sia cominciato con oltre mezz’ora di ritardo, tutto è andato per il meglio ed è stato un concerto pressoché perfetto.

Iniziava col mottetto Exultate, jubilate, scritto a Milano nel 1773 da un Mozart appena diciassettenne ma – trattandosi di Mozart - già adulto. Nulla di originale nella forma: due arie separate da un recitativo, la prima veloce e virtuosistica, la seconda in tempo lento e cantabile, e per finire un Alelluja pirotecnico. Dall’inizio del secolo in Italia di mottetti così se ne erano composti a centinaia, se non a migliaia, e ormai stavano già passando di moda, ma l’unico che dopo duecentocinquanta anni venga ancora regolarmente eseguito è questo (solo negli ultimi anni se ne sono aggiunti alcuni di Vivaldi e di altri compositori del periodo barocco) e ciò si spiega facilmente con l’eleganza e l’equilibrio spontanei della forma, con la qualità dell’invenzione melodica, con la naturalezza con cui l’aspetto virtuosistico si fonde nel discorso senza apparire una superfetazione abnorme. Tutto ciò è stato reso benissimo dall’orchestra e dalla solista, il soprano svizzero Regula Mühlemann, voce precisa e limpida.

Si passava poi al Concerto n. 3 di Beethoven, con il pianista Paul Lewis, al suo debutto in loco, ma già celebre in Gran Bretagna e in mezzo mondo, grazie soprattutto alle sue interpretazioni di Beethoven, di cui ha eseguito e inciso Concerti, Sonate e Variazioni, cioè praticamente tutta la musica pianistica. Interpretazione interessante la sua, per il rilievo dato alle transizioni e ai passaggi a base di scale e figurazioni varie, che venivano eseguiti con fraseggi originali e dinamiche molto marcate, quasi a voler significare (sebbene, a dire il vero, non ce ne fosse affatto bisogno) che non si tratta di puri riempitivi e che la personalità di Beethoven si fa avvertire inequivocabilmente anche lì. In tal modo finivano un po’ in secondo piano proprio le parti tematiche, nonostante Lewis anche lì non demeritasse affatto, soprattutto nei momenti più limpidi e sospesi, quindi in particolare nel Largo. E nel Rondò finale era splendido il breve passaggio nella lontana tonalità di mi maggiore, che appariva come uno squarcio aperto su un mondo iperuranio.

Tutta la seconda parte era dedicata alla Messa “in tempore belli”, in cui la genialità di Haydn trova l’ennesima conferma. Una poderosa struttura sinfonica sostituisce la collana di arie, cori e altri pezzi staccati in uso fino ad allora nelle messe e per la prima volta il distacco ossequioso del musicista nei confronti della celebrazione liturgica lascia spazio anche al sentimento non tanto del compositore quanto dell’intera comunità dei fedeli, che viveva un difficile momento di guerra: sono soltanto pochi accenni ma evidenti, come i marziali rulli di timpani e l’ampio spazio dato alle voci gravi del basso e del violoncello, che era Gabriele Geminiani, meritatamente chiamato alla fine da Honeck – impeccabile qui come nei due precedenti brani in programma - a dividere gli applausi con il coro preparato da Ciro Visco e con gli ottimi solisti di canto, che erano la già citata Mühlemann, Marianna Pizzolato, Kenneth Tarver e Tareq Nazmi.   

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