Piero Brega, la chitarra e la carta vetrata

Mannaggia a me è il primo disco di Piero Brega in 12 anni, ed è un piccolo capolavoro

Piero Brega Mannaggia a me
Disco
pop
Piero Brega
Mannaggia a me
Squilibri
2020

Piero Brega non deve dimostrare niente a nessuno. Non deve farlo da molti anni. Quando era parecchio più giovane, diciamo circa mezzo secolo fa, se aveva da dimostrare qualcosa lo faceva con un  gruppo inclassificabile e dirompente che aveva scelto di chiamarsi Canzoniere del Lazio. Molti li avevano scambiati, per via del nome, per una delle tante efflorescenze del folk revival, qualcosa come la versione di Roma e dintorni della Nuova compagnia di Canto Popolare campana.

– Leggi anche: NCCP, un ritorno che chiude il cerchio

Loro invece erano un gruppo di visionari che sì, partivano dal cuore saldo e indomito delle melodie popolari che si rintracciavano in Lazio, in Abruzzo, ai bordi dell'Umbria, ma quasi da subito avevano deciso che una bella serie di matrimoni misti e spuri avrebbero garantito sorprese anche a loro stessi. Ecco allora il canto rude e battuto appoggiato sulla trance music, i sassofoni a emulare zampogne popolari, il rock jazz inchiavardato sugli ostinati ritmici che fanno ballare la gente, poco importa se perché morsa dal ragno delle campagne, o perché morsa dalla miseria tour court, e allora anche un saltarello elettrificato fino all'ossessione va bene.

Il tempo poi ha macinato sogni, speranze, idee di rivoluzione e di palingenesi, e frantumato un noi collettivo che è ridiventato un io ipertrofico fragile, con magrissimo conforto di un'individualità ritrovata, ma esposta ad ogni precarietà possibile, scelta o imposta. Piero Brega ha continuato a dare segnali intermittenti. Ogni volta che ha fatto uscire un disco è stata una botta dura, secca, di quelle che ti lasciano senza fiato: il mondo è è pieno di canzoni inutili, lui quando scrive sembra avere in una mano la chitarra e gli appunti, nell'altro la carta vetrata per fare il contropelo a se stesso e al mondo com'è diventato.

Adesso erano dodici anni che non faceva uscire un disco. Manco fosse uno che sta imparando a indirizzare i passi, quando ha finito le incisioni, ci racconta nelle note, è andato a farle ascoltare, e tanto basta, a Giovanna Marini, a casa sua. Che in buona sostanza, dopo attento ascolto gli ha detto: «Ragazzo, sei cresciuto, queste canzoni valgono, hanno spessore di testi e di musica». Lui, quello che qui si sente cantare “Adoro la metafora / mi attira il paradosso/ Sono schiavo della carne / solo quella intorno all'osso/ la vita è sempre un po' più in là / e questo sono io” con Mannaggia a me ha scritto il suo disco precariamente definitivo.

Cotanta bellezza, qui ispessita da arrangiamento di fiati e corde clamorosamente efficaci, su un arrembante folk rock che ha il sentore dell'aria fresca e pulita (Ludovico Piccinini  – anche elettrizzante chitarra solistica – e Luciano Francisci) sembra un sugello definitivo. Come se non si potesse andare oltre canzoni così disperatamente vive e ulceranti, etiche e smargiasse.  Come se si potesse scrivere una prosodia folk rock più in là di "San Basilio" (recuperata da Come li viandanti in nuova veste), che mette assieme il Dylan sulfureo del '65, il De Gregori di "Atlantide" e la Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine.

Invece si potrà. E forse già lui, Piero Brega, prende appunti per sorprenderci. Quando avremo finito di mandare a memoria le canzoni drop out e ulcerate di Mannaggia a me

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