Luca Sguera, Africa e Novecento

AKA è l'ottimo esordio, su Auand, del pianista Luca Sguera, prodotto con Dan Kinzelman

Luca Sguera - AKA
Disco
jazz
Luca Sguera 
Aka
Auand
2019

Gli Aka sono un popolo pigmeo che vive di caccia a sud-ovest della Repubblica Centrafricana e nel Congo Settentrionale, noto per la complessa musica polifonica elaborata (oggetto di interesse anche di musicisti come Steve Reich e Gyorgy Ligeti, vedi il disco African Rhytms del 2003, con il pianista Pierre-Laurent Aimard).

Prodotto da Luca Sguera assieme al sassofonista americano, ma residente in Italia, Dan Kinzelman (Hobby Horse, Ghost Horse), AKA è un buon disco d’esordio per questo pianista uscito dai seminari di Siena Jazz.

"(h)opening" apre come una febbre improvvisa, tra urgenza free di una Liberation Music Orchestra in miniatura e languori ECM, sciolti in una saporita miscela speziata da un sassofono straripante (Francesco Panconesi) e un pianoforte felicemente anarchico, con batteria (Carmine Casciello) e basso (Alessandro Mazzieri) a tenere a bada gli spiriti che si radunano nella foresta: un inizio travolgente che avrebbe meritato probabilmente uno sviluppo più ampio.

A seguire "Go!", e sono appostamenti, attese, senza gli auspicabili agguati però alle buone maniere che informano un pezzo sorretto da un ottimo drive, atmosferico ma che fatica ad uscire dalla didascalia: groove frammentato, cellule melodiche minime, apertura pensosa, swing, assoli, obbligati, rotazione degli assoli, esplosione in guisa di rock atmosferico: tutto eseguito benissimo, ma già sentito. Quando vengono strappate le pagine dei manuali del buon jazzista e si riducono (less is more) gli elementi utilizzati invece le cose girano decisamente meglio: le due miniature di Satie ("V&xatio.n!s" e "Vexations") sono scrigni senza fondo in cui trovare vertigini, immagini, voragini: il novecento che scolora tra le nebbie del mito e resta impigliato tra le dita come un’ipotesi.

Se "Breathe" è un respiro che prima è largo, sospeso, per poi salire verso un cielo boreale (i compagni di etichetta Pericopes non suonano così distanti, anzi), "And We Found Ourselves Talking Machine Language" è un fugace lampo di improvvisazione dove il quartetto lascia andare le briglie, tra balbuzie minimalista (il piano ed il sax che inciampano sulla stessa figura essenziale) ed esuberanza ritmica (basso e batteria ad architettare tempesta), una direzione che personalmente auspico senz’altro per il prossimo futuro.

"Feldman" è una dichiarazione di intenti: un mood filosofico, accordi appoggiati sulla tastiera come campiture monocromatiche di Rothko, evoluzioni con tempi che paiono geologici, poi prende la mano la voglia di costruire (stare sul bordo del silenzio non è semplice, si ha spesso la sensazione di dover per forza avere qualcosa da dire) e il pezzo ha tutto un suo discorrere che è sviluppato con sapienza e palpabile necessità, ma non riesce a ripetere l’ineffabile mistero del suo inizio. La title track mima in apertura l’ipnosi imprendibile delle percussioni pigmee, quella circolarità obliqua, rituale, replicata poi da sassofono e basso che si ostinano su ombre minimali, mentre il pianoforte apre, svisa, allarga, riuscendo a scovare spigoli dove c’è cibo, e non gusci vuoti di idee già masticate. Improvvisamente dalla foresta equatoriale ci ritroviamo sbalzati in un clima urbano, teso: un mood circospetto, vagamente minaccioso, il tempo è dispari perché la vita lo è, riemergono le percussioni africane in lontananza, mentre si spalancano abissi orizzontali in cui perdersi, e poi il silenzio. 

Chiude "No stars", una ghost track (di nuovo: stare nel silenzio non è facile, si ha spesso la sensazione di dover per forza dire qualcosa), un’ipotesi di novecento alla deriva, come un Ligeti in esplorazione speleologica, con un uso impressionista dell’elettronica (è un sax effettato quello che ascoltiamo soffiare come un geyser, parrebbe) e un fare zen che ci lascia convinti di aver incontrato un musicista da cui aspettarsi ottime cose in futuro.

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