Il sogno di Valerie June

L’artista statunitense all’apice della carriera con The Moon and the Stars

Valerie June
Valerie June (foto Renata Raksha)
Disco
pop
Valerie June
The Moon and the Stars: Prescriptions for Dreamers
Fantasy
2021

Per il mese di marzo 2021, il giornale della musica aderisce – insieme a decine di riviste, portali web e radio in Europa – all’iniziativa #womentothefore dello Europe Jazz Network, a favore della progressiva parità di genere nelle musiche creative.

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Dice un antico proverbio africano: «Solo un pazzo saggia la profondità dell’acqua con entrambi i piedi». Lo recita a un certo punto di The Moon and the Stars di Valerie June la decana Carla Thomas, “Regina del Soul di Memphis”, che subito dopo duetta insieme alla protagonista in “Call Me a Fool”, uno dei pezzi forti nel quinto lavoro della cantautrice statunitense con il suo refrain imperioso.

Svezzata alla musica durante l’adolescenza nel coro della chiesa e al seguito del padre, impresario di concerti a tempo perso in Tennessee, Valerie June Hockett è un’artista afroamericana sui generis, poiché ai codici della black music associa quelli del folklore degli Appalachi, fonte d’ispirazione delle prime due prove discografiche, da lei autoprodotte.

Sarà forse questa ragione che Bob Dylan ha affermato di apprezzarla, riferendosi in particolare a The Order of Time del 2017, successivo a Pushin’ Against the Stone, con cui aveva fatto breccia nel mainstream otto anni fa, giovandosi allora della complicità di Dan Auerbach dei Black Keys. Nella circostanza il compito di affiancarla spetta invece a Jack Splash, produttore californiano in ascesa, già al mixer per conto di pesi massimi tipo Kendrick Lamar, John Legend e Alicia Keys, abile qui a inquadrare in una cornice contemporanea – si ascolti ad esempio l’orchestrazione di “Within You” – i valori della tradizione, personificati dal veterano Lester Snell: leggendario arrangiatore di scuola Stax del quale si apprezza il garbo raffinatissimo nel tenue crescendo di “Stardust Scattering” e – più ancora – nell’elegante architettura degli arrangiamenti di archi e fiati in “Stay”, che apre la sequenza.

Al centro della scena sta comunque la voce di June, modulata alternando in maniera disinvolta il sacro del gospel al profano del rhythm’n’blues con esiti ragguardevoli, come accade in “Smile” – l’episodio dalla maggiore caratura pop – oppure in “Two Roads”, dove alla tonalità nera del canto corrisponde il pallore country di una steel guitar. Quest’ultimo elemento, che rimanda ai suoi esordi, riecheggia altresì nell’arpeggio acustico su cui si fonda il fascino naïf di ballate quali “Colors” e “Fallin’”.

Illuminato da lune piene e stelle cadenti, il disco scorre con grazia quasi incorporea, avverando l’attitudine dichiarata dall’autrice: «Sono una sognatrice nata», ha confidato a “Uncut”. E in “Why The Bright Stars Glow” proclama: «Guarda come siamo andati lontano, danzando nel sole, è in quel momento che capisco perché le stelle rifulgono di lucentezza».

Approssimandosi alla soglia dei quarant'anni, Valerie June – attesa in aprile al debutto nel mercato librario con la raccolta di poesie, sermoni e disegni Maps of the Modern World – ha raggiunto la piena maturità espressiva: ne è testimonianza eloquente l’album migliore  della sua carriera.

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