Devendra Banhart e lo strano caso della parrucca volante

Il cantautore statunitense torna con Flying Wig, prodotto dall’amica Cate Le Bon

Devendra Banhart
Disco
pop
Devendra Banhart
Flying Wig
Mexican Summer
2023

Dov’eravamo rimasti con Devendra Banhart?

In carriera da oltre un ventennio, ultimamente il 42enne cantautore statunitense – ma orgogliosamente venezuelano per parte di madre – si era un po’ eclissato, dopo essere stato in gioventù – con il patrocinio di Michael Gira e la complicità della bohème newyorkese gravitante intorno ad Antony Hegarty, CocoRosie e Natalie Portman – icona riverita del cosiddetto “freak folk” (definizione da lui detestata: “Avrei preferito ‘nu metal’”, ha confidato di recente a “The Guardian”), fino a diventare addirittura mercanzia da major.

– Leggi anche: Devendra Banhart da freak a hipster

Forse distratto dall’attività parallela nelle arti visive, o magari – semplicemente – a corto d’idee, aveva diradato via via la produzione musicale: tre album appena nel decennio scorso (l’ultimo, Ma, datato 2019), contro i sette del precedente.

Rieccolo adesso con l’undicesimo della serie, Flying Wig, intitolato così in onore di una parrucca regalatagli dall’artista Isabelle Albuquerque, divenuta – chissà come e perché – “volante”.

Esaminandone i dettagli, s’intuisce che fattore determinante è stato il lavoro in veste di produttrice della gallese Cate Le Bon: amica di vecchia data e, soprattutto, personaggio dalla sensibilità affine (basti confrontare le intestazioni dei rispettivi lavori d’esordio: Oh Me Oh My nel caso di Banhart, Me Oh My in quello di Le Bon, circostanza niente affatto casuale).

Pertanto: «Era l’unica persona con cui volevo fare questo disco», ha precisato riferendosi a lei. Dovendo indicare invece l’innesco dell’ispirazione, ha citato un celebre haiku del maestro giapponese Kobayashi Issa: “È di rugiada, è un mondo di rugiada, eppure, eppure…”.

Da ciò deriva la poetica enigmatica e filosofeggiante dei testi delle canzoni, una decina in totale: “Sto cercando un sentimento difficile da spiegare”, recita l’incipit della prima, “Feeling” appunto, chiarendo in coda che si tratta di “amore senza brama”. E la successiva “Fireflies” – squisitezza esistenzialista dal tipico arredo sonoro di marca Le Bon, rarefatto e ammaliante, fra ghirigori di steel guitar, gorgheggi remoti di sax e arabeschi di sintetizzatore – termina affermando: “Quando ho detto che non ne avevo bisogno, è stato allora che ho capito di averne bisogno”.

La più dinamica “Nun” trae impulso da batteria elettronica e basso gommoso, accogliendo la filastrocca declamata dal protagonista: “Chiudo gli occhi e spedisco una cartolina, che viaggia con il tuo nome e viaggia nel mio cervello”.

I versi comunicano sovente una sensazione di smarrimento: “Come sangue fuori vena o un uccello senza cielo”, in “Sight Seer”. Oppure: “Nella terra dell’iperconsumo, sono anch’io disperato”, durante “May”.

Cosicché al momento della baldoria evocata dall’episodio conclusivo, “The Party”, l’umore non aiuta: “Vado alla festa, ma non viene da me, vedo che te ne vai, vedo che devi andartene, allora – piccola – che ne dici? Che ne dici di te e me?”. E ancora: “Solo le sirene sono qui con me stanotte”, sospira Devendra come un Ulisse disorientato in “Sirens”, distillando spleen dal vago aroma tropicalista.

All’apice dell’album, musicalmente, troviamo un altro paio di brani: “Charger” – elegia per un caricabatterie perduto! – sembra un gospel intonato nel “doposcienza” di Brian Eno e “Twin” offre un repentino scorcio di scuola post punk nel quale il mantra del cantato (“Solita paura da fronteggiare, solito sapore amaro”) sfocia in un inopinato falsetto glam (“E tuttavia questa cosa preziosa al centro di tutto ciò che hai desiderato”).

Strano oggetto, insomma, Flying Wig: al tempo stesso elusivo e incantevole. Eventuale verifica dal vivo in Italia a novembre: il 21 settembre a Milano e il 22 a Trieste.

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