Devendra Banhart da freak a hipster

Ma, decimo album di un Devendra Banhart sempre più poliglotta, ne completa la metamorfosi 

Ma, Devendra Banhart
Disco
pop
Devendra Banhart
Ma
Nonesuch
2019

Ultimamente Devendra Banhart capita di vederlo comparire con maggiore frequenza su riviste di moda o “lifestyle” anziché su quelle musicali: strano destino per chi agli esordi, quando registrava canzoncine in bassa fedeltà su audiocassette (apprezzato per questo dal guru del sottobosco indipendente d’oltreoceano Michael Gira, suo patrono a inizio carriera) fu tra i protagonisti del cosiddetto “freak folk”.

Ora Devendra è invece beniamino degli hipsters, categoria di cui ostenta il vezzo d’ordinanza: la barba. Nel frattempo ha allargato il raggio della propria azione, affermandosi pure nel circuito dell’arte visiva con disegni e dipinti dal gusto naïf: valga da esempio l’immagine che illustra il nuovo album Ma.

Si tratta del decimo a lui intestato in 17 anni di attività: quarto dal momento del contratto con la major Warner e terzo per la sussidiaria aristocratica della medesima, Nonesuch. Continua a diffondere comunque un’idea d’inventiva ingenua la scrittura del trentottenne nativo del Texas, allevato però nell’infanzia in Venezuela dalla madre. L’eco di quei giorni persiste tuttora in ciò che crea: prova ne siano l’intestazione della raccolta, riferita in senso lato alla figura materna (tanto la mamma quanto il pianeta Terra, per intendersi), e i tre brani cantati in spagnolo, tra i quali segnaliamo “Abre las Manos”, che mescola fragranze esotiche a un pregiato arrangiamento orchestrale.

Ne rafforzano il profilo da cantautore poliglotta l’episodio – “Carolina” – in cui si cimenta con il portoghese, coerente con l’umore “tropicalista” che lo pervade, e l’altro dove spende qualche parola in giapponese, titolo incluso: “Kantori Ungaku”, letteralmente “musica country”, benché onori Haruomi Hosono, pioniere dell’electro pop in Asia con la Yellow Magic Orchestra.

Più pertinente al curriculum del personaggio è semmai l’epilogo, “Will I See You Tonight?”: ballata grondante archi e nostalgia nella quale aleggia la voce di Vashty Bunyan, icona del folk britannico d’antan venerata da Banhart. Durante “Taking a Page” viene citata viceversa in maniera esplicita Carole King e in genere – sul piano sonoro – si allude al languido e luccicante pop californiano dei primi anni Settanta, insaporendo la ricetta con un pizzico di humour amaro (“Indossando una t-shirt Free Tibet fabbricata in Cina”, mentre il relativo video indugia su paesaggi nepalesi).

Al contrario, ha tono sommesso ed essenziale la canzone dedicata al padre scomparso, l’eloquente “Memorial”.

Il panorama stilistico è dunque variegato, se consideriamo inoltre gli accenti easy listening della seducente “Love Song” e gli intermittenti guizzi rhythm’n’blues in “My Boyfriend’s in the Band”: si prodiga per conferire coesione all’insieme con tocco sapiente e raffinato il produttore di fiducia Noah Georgeson. Proprio al principio del disco, un titubante Devendra domanda sul pizzicato di ukulele di “Is this nice?”: “È carino? Ti piace?”.

Non male, risponderemmo: Ma è gradevole all’ascolto. E tuttavia niente affatto indispensabile.

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