Nowhere Inn, il finto documentario su St Vincent

Carrie Brownstein delle Sleater Kinney e St Vincent in un bizzarro mockumentary, appena uscito

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Presentato al Sundance Festival lo scorso anno, il 17 settembre è arrivato nei cinema e su un paio di piattaforme di streaming statunitensi The Nowhere Inn, film che vede come protagoniste St Vincent e la sua migliore amica Carrie Brownstein, chitarrista del gruppo Sleater-Kinney, e diretto da Bill Benz.

– Leggi anche: Le Sleater-Kinney a casa di St. Vincent

St Vincent, in tour per la promozione del disco Masseduction, è un’artista pop ricca di glamour, mentre Annie Clark – questo il suo vero nome – è una persona noiosa, una che durante i trasferimenti in bus da una città ad un’altra gioca a Scarabeo, ben lontana dall’immagine di sé che trasmette dal palco; due musicisti della band arrivano a dire che «la musica è il suo unico aspetto divertente».

– Leggi anche: Il lato b di St. Vincent

St Vincent Nowhere Inn film

Se sia vero non lo sappiamo, The Nowhere Inn infatti è un mockumentary in cui eventi fittizi e di fantasia sono presentati come se fossero reali attraverso l'artificio di un linguaggio documentaristico. Quanto scritto sopra su Annie si rivela però un vero enigma per la sua amica Carrie Brownstein, attrice e regista alle prime armi, che vuole realizzare un documentario su St Vincent/Annie come sua prima incursione nella regia artistica.

Il film finisce per essere il making of di questo documentario, con sguardi “dietro le quinte” alla vita di tutti i giorni della Clark, la narrazione di Annie e Carrie che discutono su come dovrebbe essere il documentario – che gli spettatori vedranno solo parzialmente – ed estratti di St Vincent sul palco, girati su pellicola granulosa e sporca.

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Alla fine il ritratto che viene fuori di St Vincent è parecchio ingarbugliato e, per sua stessa ammissione, distante da quello attuale: il pop al neon di Masseduction è il passato, nel frattempo è uscito il suo sesto album, Daddy’s Home, con un suono influenzato dagli anni settanta, suo padre è davvero tornato a casa dopo dodici anni di prigione e in mezzo c’è stata pure una pandemia che ha bloccato i concerti.

St Vincent recluta la Brownstein per realizzare un documentario del tour in corso ma quest’ultima, temendo che la vita della Clark lontana dai riflettori sia meno eccitante del personaggio sulle scene, senza volerlo conduce l’amica a trasformare la sua personalità e il suo ego in quelli di una “St Vincent a tempo pieno”.

Si ride anche guardando il film, come nel dialogo iniziale tra St Vincent e l’autista della limousine che non l’ha mai sentita nominare, nella buffa scena di sesso tra lei e l’attrice Dakota Johnson nel ruolo della sua fidanzata o quando  “Year of the Tiger” – brano incluso nell’album Strange Mercy del 2011 – è trasformato in una jam rustica nel cortile di una fattoria texana, facendomi venire alla mente True Stories, il film del 1986 del suo amico David Byrne.

Il problema sorge quando si comincia a fare fatica a distinguere il falso documentario dal vero film; in più metteteci il desiderio – a mio parere pretenzioso e fuori luogo nell’economia della vicenda – di omaggiare l’art house cinema degli anni sessanta e settanta, Nicolas Roeg in testa, e il tentativo, in alcuni passaggi, di invadere il territorio horror psicologico di David Lynch, e capirete perché a tratti il risultato sia stucchevole, se non indisponente.

Una volta che l’idea centrale – chi è Annie opposta a St Vincent e cosa succede quando le due personalità si fondono – è stata sfruttata, il film si avvita su sé stesso, non va da nessuna parte, nowhere per l’appunto.

P.S. Lo stesso giorno dell’uscita del film nelle sale statunitensi è stata resa disponibile anche la colonna sonora.

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