La leggendaria storia del leggendario Hasaan

Chi era Hasaan Ibn Ali, che compare nelle storie del jazz per una sola incisione con Max Roach? Un disco Tzadik di Brian Marsella omaggia il suo mistero

Legendary Hasaan
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La figura di Hasaan Ibn Ali, pianista, è di quelle che pompano linfa leggendaria nelle narrazioni degli anni d’oro del jazz del secondo dopoguerra.

Nato nel 1931 a Philadelphia, città di cui è stato presenza influente (stando alle cronache) sin dagli anni Cinquanta, William Henry Langford Jr. – questo il vero nome di Hasaan – è entrato nel mondo del jazz “che contava” grazie a un solo disco, The Max Roach Trio Featuring the Legendary Hasaan, inciso alla fine del 1964 per la Atlantic.

Max Roach. Atlantic. E un aggettivo, quel legendary, che anche in un mondo discografico in cui le iperboli nei titoli erano abbastanza frequenti, suona inquietamente ironico, trattandosi di un musicista pressoché sconosciuto al di fuori della cerchia dei jazzisti locali.

Un “leggendario” che racconta di un underground che la documentazione discografica non riesce a restituire; della tenacia di Roach nel proporlo (imporlo?) all’etichetta; della possibilità di sparire dopo essere giunti al “traguardo” (quando molti mediocri musicisti potevano e ancora possono intasare le discografie di registrazioni inutili).

Già, perché nel secolo dei mezzi di riproduzione, di Hasaan resta poco o niente oltre al disco Atlantic (a questo punto l’aggettivo legendary si sposta di diritto, ironia della sorte, sull’oggetto). L’archivio storico dei materiali di Roach, conservato alla Library of Congress, include una registrazione in solo, registrata a casa del batterista, ma non si va molto oltre. Mantenendo poi il fil rouge con la leggenda, il materiale di un paio di sedute seduta di registrazione del 1965, in quartetto con il sassofonista Odean Pope (che di Hasaan è stato allievo e che costituisce uno dei testimoni più accreditati per ricostruire le poche informazioni sul nostro), sembra invece fare un’ingloriosa fine nell’incendio dei magazzini dell’Atlantic e quindi adieu.

Poi, complici questioni personali e caratteriali, poco o nulla si sa degli anni successivi, fino alla morte, all’alba degli anni Ottanta.

Musicista dalla precisa originalità stilistica, legato a Elmo Hope, ma senza difficoltà riconducibile alla brusca trasversalità che unisce, in quegli anni, figure comunque “eccentriche” come quelle di Thelonius Monk, Herbie Nichols o il primo Cecil Taylor, Hasaan costituisce così da oltre mezzo secolo uno di quei “culti” che rimpinguano le vanterie dei connoisseurs, influenzando i musicisti più acuti (non a caso Alexander Hawkins, uno dei pianisti oggi più originali, lo cita in qualche intervista come un riferimento), ma a cui si può guardare solo dal buco della serratura del pur eccellente disco con Roach, lasciando all’immaginazione ciò che di eccitante può essere accaduto al di fuori della stretta inquadratura.

In questo senso è certo benvenuta l’idea di Brian Marsella, nato a Philadelphia proprio nei mesi in cui Hasaan ci lasciava, di prendere sul serio questo passaggio di testimone e omaggiare il “leggendario” in un nuovo lavoro.

Ottimo pianista che si muove alla corte di John Zorn, Marsella ha infatti da poco pubblicato Outspoken: The Music of the Legendary Hasaan (Tzadik, 2018), in trio con i concittadini Christian McBride al contrabbasso e Anwar Marshall alla batteria.

Legendary Hasaan

Il buco della serratura c’è per tutti e anche Marsella si trova così a confrontarsi con un repertorio limitato a un disco; la scaletta è così per tre quarti formata dalle composizioni del disco Atlantic (resta fuori solo la conclusiva “To Inscribe”) e completata da un inedito di Hasaan e da un pezzo originale di Marsella.

L’immaginazione di cosa accade oltre ai margini è rispettosa e stimolante: Marsella può ovviamente non solo fare dialogare Hasaan con un contesto di memoria più vasto, che dallo stesso Hope passa per un altro pianista di Philadelphia come McCoy Tyner, per restituire una sintesi strutturata e prospettica; ma ha anche l’intuizione di ripassare i contorni del fraseggiare di Hasaan con un tratto ben marcato, contemporaneo.

Ecco quindi che "Three-Four vs Six-Eight Four-Four Ways" (con l’indimenticabile frase che ricorda la novelty song della fata di Cenerentola, "Bibbidi-Bobbidi-Boo") rinnova la sua esplosività, ma lungo tutto il disco si percepisce una fiammeggiante energia che smonta  e rimonta il fraseggio bop con una tridimensionalità che trova in McBride e Marshall due vettori ideali.

Outspoken: chiaro, esplicito, diretto. Così Marsella titola il disco, facendo riferimento al carattere di Hasaan secondo la preziosa testimonianza di Odean Pope, secondo cui nella competizione del club, il nostro non andava troppo per le lunghe a mettere al loro posto i colleghi meno bravi, ma è anche una dichiarazione d’intenti che restituisce bene la “necessità” dell’omaggio.

Da ascoltare. Marsella (di cui, per policy Tzadik, non c’è al momento alcun brano disponibile in rete da farvi ascoltare) e, ovviamente, Hasaan.

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