Jorja Smith, Kadhja Bonet o SOPHIE?

Tre nuovi dischi di donne fra i migliori titoli degli ultimi mesi: la nostra recensione del "triplete" 

SOPHIE
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I più attenti tra voi avranno notato che negli ultimi mesi sul giornale della musica abbiamo parlato spesso di musica al femminile (qui per esempio): non l’abbiamo fatto perché siamo politically correct ma perché il gentil sesso si è dimostrato tutt’altro che gentile, bombardandoci senza pietà con lavori di alto livello.

Ecco dunque un nuovo triplete: Partiamo dalla più giovane, Jorja Smith: ventun’anni appena compiuti, inglese, collaborazioni con Drake, Kali Uchis e Kendrick Lamar, una carriera in ascesa da modella, un EP nel 2016 e adesso l’album d’esordio, Lost & Found.

Debitore nei confronti di Amy Winehouse e Lauryn Hill, il disco è caratterizzato per la maggior parte da un R’n’B delicato, con la sua vetta nel pezzo "Wandering Romance" ("nessuno mi fa sentire sporca come fai tu, allora prendilo come vuoi, prendi tutto il mio amore"), ma non mancano le escursioni nella UK dance (terreno già frequentato lo scorso anno con "On My Mind", collaborazione in chiave garage con Preditah), soprattutto in "February 3rd" e in "The One".

Jorjah Smith

Compaiono anche due brani che potremmo definire più attenti al sociale: il primo è "Blue Lights", già pubblicato su Soundcloud nel 2016, una meditazione malinconica sulla brutalità della polizia e sulla violenza razziale costruita su un campionamento di "Sirens" di Dizzee Rascal, il secondo è "Lifeboats (freestyle)", con il verso "perché i più ricchi stanno a galla e i miei fratelli annegano? / Perché li guardiamo annegare? Siamo troppo egoisti sulle nostre scialuppe di salvataggio". Lost & Found è un album d’esordio nel vero senso della parola, è disordinato, è una dichiarazione, è la fotografia odierna di Jorjia Smith ma è anche l’anticipazione di ciò che potrà diventare.

Ci spostiamo in California dove incontriamo la ventisettenne Kadhja Bonet: con alle spalle studi musicali classici e un mini-LP, The Visitor, uscito due anni fa, ora si cimenta sulla lunga distanza con Childqueen. Ci troviamo di fronte a un album difficilmente classificabile, a volte spiazzante, fatto com’è di sonorità inusuali che sembrano arrivare da un passato remoto e intrise di indefinitezza nostalgica (del resto cosa aspettarsi da una che sostiene di essere nata nel 1784?).

La sua musica, sostenuta da un’abbondanza di violini e flauti, e la sua voce eterea e senza tempo ci conducono all’interno di un retro-soul con venature jazzistiche: il risultato è celestiale, totalmente diverso da ciò che siamo abituati ad ascoltare in questo periodo. Siamo alle prese con un disco assolutamente solido, malgrado la sua apparente fragilità, all’interno del quale risulta difficile estrapolare anche un solo brano: vabbé, ci provo, e segnalo “Delphine” e l’accoppiata “Wings” e “Joy”, la prima dall’andamento hollywoodiano, la seconda un’autentica boccata d’aria fresca in questi tempi difficili. Se non si fosse capito, sarò più diretto: disco consigliatissimo. 

Childqueen

 

Rimaniamo in California per parlare di Oil of Every Pearl’s Un-Insides, lavoro d’esordio della “scultrice di suoni” di origine scozzese nonché provocatrice della cosiddetta PC Music Sophie Xeon, meglio conosciuta come SOPHIE.

Ventisettenne, attiva dal 2009, collaborazioni con Diplo, Madonna, Vince Staples e Charli XCX, nessun problema di coscienza a vendere un paio di canzoni a grandi marchi internazionali per la realizzazione di spot pubblicitari, SOPHIE ha celato il suo volto al pubblico fino alla realizzazione, lo scorso anno, del video di "It’s OK To Cry".

Questa canzone ha segnato un primo, deciso cambiamento nel mondo musicale di SOPHIE che è arrivato al suo compimento con Oil of Every Pearl’s Un-Insides: l’unione/collisione di pop e ritmi elettronici frammentati, segmentati e distorti, grazie all’uso dell’Elektron Monomachine che permette di lavorare in tempo reale sulle onde sonore, il tutto all’interno di un immaginario erotico a volte estremo.

Detto così sembra intrigante e, per nostra fortuna, lo è davvero: è un disco pieno di idee, che conquista con facilità la nostra attenzione e che tocca tematiche importanti come l’affermazione di sé al di là dei generi e la voglia di libertà di essere ciò che già siamo e che spesso non ci viene riconosciuta. All’interno di un eccellente album di high concept pop si segnala la canzone hyperpop per eccellenza, “Immaterial”, in cui SOPHIE chiede “senza i miei jeans e il mio reggiseno, senza le mie gambe e le mie mani, senza nome e nessun tipo di storia, dove vivo? Ditemi dove esisto?”. È un pop nuovo, è materia liquida in continuo divenire, è scultura sonora fatta di latex, palloncini, bolle di sapone, metallo e cuoio, è coinvolgente, è sorprendente, è terribilmente sexy.

Sophie

Recentemente l’amico Giorgio Valletta ha visto SOPHIE su uno dei palchi del Sonàr di Barcellona e mi ha riferito che, al termine di un set tiratissimo e ricco di distorsioni, l’artista ha distrutto il suo laptop. Un Jimi Hendrix del terzo millennio: vi ho dato tutto, quel che è stato non si ripeterà, domani sarà diverso da oggi, la materia assumerà nuove forme, per un’ora soltanto sarà contemporanea, prima dell’inevitabile obsolescenza.

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