Il decennio di Burial

L’antologia Tunes 2011 to 2019 per riflettere su Burial e la sua “musica sulla musica dance”, suono del tempo presente

Burial Tunes 2011 to 2019 
Articolo
pop

Durante lo scorso decennio autore di due pietre miliari del fenomeno definito da Simon Reynolds “hardcore continuum”, Burial (2006) e Untrue (2007), il londinese William Emmanuel Bevan, più noto – appunto – come Burial, non ha pubblicato da allora alcun album, preferendo manifestarsi in formati più concisi, a colpi di due o tre brani per volta.

Adesso, però, il contenuto di quei sette EP usciti con il marchio Hyperdub è stato condensato in un doppio disco edito per celebrare il quindicesimo anniversario dell’etichetta fondata dallo scozzese Steve Goodman, alias Kode9, suo primo e tuttora principale interlocutore, fra i pochi ad avere contatti diretti con un personaggio altrimenti restio a comparire: mai dal vivo, rarissime le interviste, una sola fotografia divulgata ufficialmente. Quasi fosse una Primula Rossa: l’equivalente in musica di Banksy.

Burial Tunes 2011 to 2019 
Burial nell'unica foto "ufficiale"

Il compito di rappresentarlo, dunque, spetta esclusivamente alle produzioni da lui firmate: tracce costruite in cameretta impiegando software datati e campionamenti di varia estrazione (brandelli di canzoni, colonne sonore di videogame, scampoli radiofonici, televisivi o cinematografici). Ad ascoltarle, sembra d’imbattersi in un ectoplasma del “clubbing”: il precipitato corpuscolare di quanto espresso oltremanica dalla scena animatrice dei rave e delle radio pirata (drum’n’bass, UK garage, 2-step, grime, dubstep e via elencando).

«Volevo creare brani basati su quello che per me significava il suono del sottobosco hardcore britannico e volevo che dentro ci fosse una dose di vita vera, qualcosa con cui la gente potesse entrare in relazione».

Nelle parole dell’interessato, raccolte una dozzina di anni fa dal compianto Mark Fisher per The Wire, l’intenzione era questa: «Volevo creare brani basati su quello che per me significava il suono del sottobosco hardcore britannico e volevo che dentro ci fosse una dose di vita vera, qualcosa con cui la gente potesse entrare in relazione». Così facendo, definì le coordinate di un habitat nel quale si sono accomodati artisti di natura opposta come James Blake e Skrillex. E, più in generale, diede forma a un’evoluzione dello spleen urbano immortalato a fine Novecento dai Massive Attack (con cui, non a caso, si ritrovò a collaborare nel 2011): «musica per chi torna a casa da solo di notte», secondo la suggestiva interpretazione della webzine Loud and Quiet, magari – aggiungiamo noi – reduce da una nottata in un club, con l’eco di ciò che si è ballato ancora negli orecchi e addosso un senso di stordimento esistenziale.

In Tunes 2011 to 2019 Burial prova a conferire coerenza narrativa ai lavori successivi, scegliendo una sequenza che parte dai giorni nostri per raggiungere in retromarcia il passato, invertendo quindi la cronologia enunciata nel titolo. Lo sguardo d’insieme è impressionante: 17 episodi per una durata totale inferiore per un’inezia alle due ore e mezza. Gli elementi caratteristici dello “stile Burial” – voci, in genere femminili, acuminate artificialmente, breakbeat strozzati e sfrigolii di vinile – valgono da filo conduttore. Fattore essenziale, rispetto al materiale incluso negli album, è la maggiore ampiezza delle composizioni (sei oltre la soglia dei dieci minuti), tale da renderle simili a suite: sensazione rafforzata dall’articolazione in movimenti, ad esempio nell’epica “Come Down to Us” o nell’assillante “Rival Dealer”.

Quest’ultima sfocia in un ossessionante groove techno, ostentando un’impronta ritmica molto marcata: la vera novità nel campionario degli anni Dieci, come confermano “Claustro”, addirittura pop nelle linee melodiche, e “Loner”, dove un arpeggio di sintetizzatore indirizza il suono verso un’house del dopobomba.

Ha viceversa spettrali sembianze ambient il trittico d’apertura, costituito dai pezzi di fattura più recente: “Subtemple”, in particolare, con voce smarrita nel vuoto elettronico, evoca atmosfere da noir cinematografico.

Nel complesso, per densità di argomenti e maestosa volumetria, l’antologia colloca nella dimensione dovuta l’impresa affrontata da Burial: creare cioè “musica sulla musica dance”, per usare un’espressione appena coniata dal Village Voice, ossia un metalinguaggio radicato nel presente e al tempo stesso avveniristico.

Si tratta pertanto di un’opera dalla statura gigantesca.

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