Sempre Wire, mai gli stessi Wire

Ad Avellino, i padri del post-punk inglese celebrano quarant'anni di carriera nel loro consueto stile: guardando in avanti.

BR

17 ottobre 2018 • 2 minuti di lettura

Wire
Wire

Auditorium Cimarosa, Avellino

Wire

06/10/2018 - 06/10/2018

Era il 1979 quando all'atteso tour che avrebbe dovuto suggellare il fulminante e geniale trittico di Pink Flag, Chairs Missing e 154, i Wire di Colin Newman risposero con uno spettacolo stravagante, accompagnato per la gran parte da materiale inedito (poi raccolto in Document and Eyewitness).

È il 2018 e per il loro ritorno in Italia, anche e giustamente celebrativo di una carriera ormai quarantennale, il quartetto inglese lascia da parte la teatralità ma non rinuncia alla sua caparbia imprevedibilità.

In un Auditorium Cimarosa strapieno e che, a giudicare dagli accenti, ha richiamato spettatori da tutto il Sud Italia, l'approccio è preciso e diretto: "some material is new and some is just obscure", suggerisce sbrigativamente Newman – e sono di fatto le sue prime parole – quando nei primi venti minuti di concerto le uniche note riconoscibili sono quelle di una scattante "Three Girl Rhumba". Il suono è potente, il nuovo materiale promette bene (in particolare "Mind Hive" con il suo straniante staccato e "Off The Beach" che si riprende con gli interessi quello che le Elastica e tutto il britpop scippò a loro una ventina d'anni fa), ma, complice forse proprio la novità e l'inevitabile rodaggio della proposta, la percezione è che qualcosa non giri proprio a dovere, come se l'indiscussa intelligenza dei Wire allungasse, e troppo, il passo rispetto alla capacità di esecuzione.

È un salvifico (e per fortuna falso) allarme antincendio a dare fiato e a riaprire la partita. Al ritorno sul palco, il gruppo è visibilmente innervosito e, per questo, magnificamente aggressivo. Che li si ascriva al post-punk, che li si riconosca come precursori della new wave, che se ne apprezzi la vena melodica meglio svelata nella loro seconda incarnazione, quella degli anni Ottanta, o la vena più austera e quasi industriale del loro ritorno negli anni 2000, i Wire sono stati, nella loro essenza, un gruppo pop sperimentale e psichedelico, la cui versatilità è qui pienamente dimostrata nella scintillante rilettura del classico "Ahead", nella muscolare "Short Elevated Period", nella quasi pastorale "Red Barked Tree" e nella dadaista e giocosa “Drill” che chiude i bis. Ma anche capaci di prescinderne del tutto, come nella labirintica ed oscura “Hung”, che gioca sulla ripetizione e su un crescendo che sconfina in un vero e proprio muro del suono, segnale più che mai propizio di un album che arriverà per il 2020.

Sempre Wire, mai gli stessi Wire, direbbe qualcuno.