Muti, Schubert e Cherubini
Sul podio dell’orchestra e coro del Maggio Musicale Fiorentino Riccardo Muti celebra i cinquant’anni dalla morte di Vittorio Gui
23 dicembre 2025 • 3 minuti di lettura
Firenze Teatro del Maggio Musicale Fiorentino
Muti, Schubert e Cherubini
19/12/2025 - 19/12/2025Come sempre, il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino era pieno per il ritorno di Riccardo Muti sul podio dell’orchestra che nel 1968 affidò al direttore napoletano, allora ventisettenne, il ruolo di direttore stabile – come si diceva a quei tempi – e una vetrina importante per il definitivo decollo della sua carriera. L’occasione era il cinquantesimo della morte di Vittorio Gui (Roma 1885 – Fiesole 1975) che di quest’orchestra, allora denominata Stabile Orchestrale Fiorentina, fu il fondatore e primo direttore nel 1928. Alla stessa data del concerto c’è stata infatti una giornata di studi conclusa dall’intervento di Harvey Sachs sui rapporti fra Gui (già firmatario del manifesto antifascista promosso nel 1925 da Benedetto Croce) e il regime fascista, poi proseguita con un’altra tornata il 20 a Pesaro dove è custodito, nella biblioteca della Fondazione Rossini, il Fondo Gui. Dal 1968 al 1975 Muti e Gui ebbero più volte modo di incrociarsi giacché il direttore romano faceva regolare ritorno sul podio fiorentino e anzi diresse l’orchestra del Maggio nel suo ultimo concerto, pochi giorni prima della morte. Muti all’inizio, Gui alla fine, dunque. Non crediamo che Muti esagerasse nel sottolineare a fine concerto, nel discorso al pubblico fiorentino che come sempre fa quando torna qui, che l’esempio di Gui è stato importante per lui soprattutto per imparare la “lezione della severità”, il fatto che il direttore non deve compiacere l’orchestra ma pretendere da essa che gli dia quello che vuole, e anche altre osservazioni sparse nel suo discorso, come quella sulla spettacolarizzazione della gestualità direttoriale, trovano qualche riscontro negli scritti di Gui.
Il programma scelto da Muti consisteva nell’Incompiuta di Schubert e nel Requiem in do minore per coro e orchestra di Luigi Cherubini, due partiture composte in un lasso di tempo abbastanza limitato (1816 Cherubini, 1822 Schubert) da due compositori che non potrebbero essere più diversi anche se le loro carriere, breve l’una, molto lunga l’altra, furono accidentate. Cherubini è un autore che Muti ha posto al centro dei suoi interessi, tanto da eseguirlo molto (più volte questo Requiem) e da dare il suo nome dall’orchestra che ha fondato. Cherubini è una versione personalissima e diversa dalla linea dominante austrotedesca dello stile classico; acclamato, poi dimenticato (dal pubblico, non dai maestri, visto il giudizio di eccellenza e addirittura di modello che ne dettero Beethoven e Brahms, come Muti non ha mancato di ricordare), poi variamente e più volte riesumato (pensiamo alla recente inaugurazione del San Carlo con Medea, la versione italiana già tornata alla gloria grazie a Maria Callas); mentre lo Schubert dell’Incompiuta – a differenza della Grande – è qualcosa d’altro dallo stile classico e apre altre prospettive. Però nella visione di Muti queste due scritture così diverse erano in qualche modo accomunate da una comune impronta, da una chiave che vorremmo definire tragica e perfino luttuosa. Con il suo stile direttoriale e il suo gesto di oggi, raccolto per quanto fluido, scavante verso lo spirito più intimo delle partiture che sente più congeniali, Muti ha buon gioco a delineare senza forzature e con misurata ma convincente flessuosità di fraseggio il fascinoso e soave melodizzare del primo tempo dell’Incompiuta, ma non perde occasione di accentuarvi, senza enfasi ma con grande prontezza di delineazione, i momenti più accesi, e quelli che virano verso espressioni più ombrose e drammatiche; e poi conduce l’Andante con moto come una sorta di narrazione in cui le atmosfere sospese e sognanti che rendono famosa questa pagina si dipanano felicemente, grazie anche alle delicate sortite dei legni solisti, ma via via cedono il passo alla chiave tragica della conclusione. Passando al Requiem in do minore di Cherubini (ma lo stesso avviene in quello più tardo, in re minore), la sua particolarità rispetto agli altri Requiem più noti è l’assenza delle voci soliste, per cui il percorso del testo liturgico è privato dalle emozionanti oasi liriche in altri casi affidate alle voci sole. Ma proprio questo ne costituisce l’originalità: la sobrietà, l’assenza di enfasi, la linearità di una polifonia essenziale ma riccamente strutturata e ricca di sorprese compositive culminanti nello splendido costrutto dell’Agnus Dei e della sua conclusione così funebre e insieme sommessa. Insomma, musica che è tutto meno che edonistica e nel cui spirito severo Riccardo Muti sembra rispecchiarsi profondamente. Successo pieno e convinto, per il direttore e per l’eccellente prestazione dell’orchestra e del coro.