Jessica-Lucrezia e il Papa Bianco

Al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, grande successo per la componente musicale e la protagonista Jessica Pratt, ma affonda tra i buu la singolare e pretestuosa rilettura registica della Lucrezia Borgia di Gaetano Donizetti

ET

11 novembre 2025 • 5 minuti di lettura

Lucrezia Borgia
Lucrezia Borgia

Firenze Teatro del Maggio Musicale Fiorentino

Lucrezia Borgia

09/11/2025 - 16/11/2025

Cominciamo dalla musica: quanto successo domenica al Teatro del Maggio ci confermava che, se la musica funziona, anche la più bislacca delle regìe non può offuscare il successo, perché poi, all’uscita per gli applausi finali, ognuno si prende le sue responsabilità, e il pubblico sa distinguere. Dunque, la Lucrezia Borgia, nata per la Scala nel 1833, mancava dal Teatro del Maggio dal 1979. Il suo ritorno fa parte del progetto che il teatro fiorentino ha in corso con Jessica Pratt, un progetto che prevede un approfondimento del repertorio belcantistico che valga nello stesso tempo, oltre alla riscoperta di titoli meno frequentati, anche, ci sembra, alla virata della Pratt verso un repertorio in cui emergano qualità interpretative più orientate alla vocazione drammatica. Da questo punto di vista, la scelta del titolo è veramente ideale: un’orchestra già con spessori maggiori e più possenti che in Bellini, una vocalità che oscilla fra il canone belcantistico nel senso più stretto del termine – ciò dove la Pratt rifulge e conquista immancabilmente il pubblico - e una più potente declinazione, appunto, drammatica. Qui, come sarà poi in Lucia, si rileva la propensione donizettiana per atmosfere cupe e suggestioni fantastiche e fantasmatiche e per ambigui e perigliosi giochi di potere, con una pronunciata sensibilità al milieu della storia e dell’ambientazione (il che crea anche intrecci corali e scene di massa particolarmente mosse), e per un racconto ritmato in modo più veloce e inquieto. E c’è la novità di un personaggio in qualche modo mostruoso e bicipite, dove il bene è rappresentato dalla maternità (la ricerca del figlio sottrattole alla nascita, Gennaro, che ritrova finalmente, fattosi grande e capitano di ventura, nel prologo veneziano), e il male da un’indole imperiosa e proterva che cerca sempre la sua vendetta. Come sarà poi nel verdiano Rigoletto, parimenti tratto, come la Lucrezia Borgia, da un dramma di Victor Hugo.

Insomma, c’è tutto ciò che differenzia Donizetti da Bellini, e questo tratto è stato colto bene dal direttore, Giampaolo Bisanti, che ha impresso la dovuta concitazione ai momenti più convulsi (pensiamo in particolare al grintoso finale del primo atto), e disteso convenientemente quelli più lirici e onirici, garantendo l’equilibrio fra buca e palcoscenico ma senza smorzare la potenza e i colori dell’orchestra, in una sintesi che ci è sembrata giusta per quest’opera a doppia vocazione. Jessica Pratt è stata molto convicente sul piano scenico, e come sempre ammaliante belcantista, fin dalla romanza “Com’è bello ! Quale incanto” con cui, nel prologo veneziano, contempla il figlio addormentato, Gennaro, e poi sempre, negli inesauribili arabeschi vocali culminanti in acuti possenti o deliziosamente smorzati, e nelle variazioni di seconde strofe e ripetizioni (qui tra l’altro la romanza citata veniva appunto ripetuta e variata), meno convincente quando il cantare di Lucrezia affonda imperiosamente nei gravi e in un’accentazione tragica più incisiva. Ma ci sembra evidente che questa grande cantante sta cercando altre potenzialità e talenti oltre a quelli per cui è universalmente conosciuta. Molto appropriato stilisticamente e per natura vocale il Gennaro di René Barbera; assai bene anche scenicamente Laura Verrecchia nel ruolo en travesti di Maffio Orsini, il fido compagno di Gennaro; purtroppo deludente rispetto alla perversa grandiosità del personaggio il duca Alfonso d’Este di Mirco Palazzi, molto a posto vocalmente e scenicamente anche il folto comprimariato di amici di Gennaro e spioni e cortigiani del Duca, fra cui citiamo per tutti Daniele Falcone e Gonzalo Godoy Sepulveda (Liverotto e Gazella), e il coro.

E veniamo ora alle dolenti note della regìa. Come nel suo precedente e a nostro vedere infelicissimo Don Pasquale del 2020 di cui riferimmo a suo tempo sul GdM (“Don Pasquale al Casinò”), Andrea Bernard, a quanto pare o almeno a quanto si è visto a Firenze, non riesce a immaginare niente che non abbia un riscontro cinematografico. In questo caso, giacché nel quanto mai instabile gioco di alleanze fra gli stati e staterelli italiani Alfonso d’Este era alleato del papa e suo protetto, Bernard immagina un incombente potere papalino che fin dal preludio ci mostra l’antefatto del neonato sottratto a Lucrezia dalle suore spietate, poi trasforma la corte estense in una succursale del Vaticano popolata di preti e prelati anziché di cortigiani, tutta riti di compunzione, punizione e autopunizione dichiaratamente ispirati a Todo Modo di Elio Petri da Leonardo Sciascia, mentre il milieu dei giovani e goderecci amici venturieri di Gennaro è ricondotto altrettanto dichiaratamente alla Dolce vita felliniana. Su tutto più volte incombe minacciosa una figura di Papa Bianco alla Pio XII, che ispira terrore a Lucrezia. Ora, Pio XII ha tante colpe più o meno accertate e a lungo discusse, ma certamente non somiglia per niente ai papi del tempo di Lucrezia, fra cui spicca nella fantasia Alessandro VI ossia Rodrigo Borgia, il padre di Lucrezia, ma anche gli altri non erano da meno per intrighi, bellicosità, sostanziale indifferenza alla spiritualità, assoluta estraneità a rinunce, compunzioni, autoflagellazioni, se non in sornione simulazioni. La regìa, insomma, va del tutto fuori tema.

Da notare l’uso o abuso della grande piattaforma rotante di cui si è dotato il palcoscenico fiorentino, macchina che faceva il suo esordio in questo spettacolo. Questa rotazione di ambienti, oltre ad assolvere ai suoi compiti naturali nei cambiamenti di scena, illustrava qui, fra le altre cose, i trascorsi di Lucrezia come vittima-strumento dei Borgia, ripercorrendo certe leggende assai frequentate fin dal Cinquecento, come quella del rapporto fra Lucrezia e il suo famoso fratello Cesare, il Valentino. Alla fine, quando Gennaro muore, la macchina serviva a far ruotare ossessivamente diversi ambienti tutti caratterizzati da culle bianche rovesciate e spezzate, a rappresentare la maternità tragicamente fallita di Lucrezia, rimandando alla scena del preludio. Invece mancava del tutto la tonalità giusta e che certamente aveva attratto Victor Hugo e Donizetti. Il fosco e magnifico Rinascimento italiano, con i suoi spendori e i suoi delitti, tanto caro al Romanticismo europeo, puoi riambientarlo quando e dove ti pare, se ti riesce, ma non puoi alterare la natura dei vissuti, dei conflitti, delle passioni. E la chiudiamo qui, tralasciando molti altri spunti di critica, se non per dire che l’uscita di Bernard con tutto il suo team è stata accolta da una sonora muraglia di dissensi, ma che, prima, alla musica era stato tributato un successo smagliante, con applausi particolarmente entusiasti a Jessica Pratt e al direttore Giampaolo Bisanti.