L’Offenbach impudico di Kosky conquista Salisburgo
Grande successo (e polemiche sul body shaming) per Orphée aux Enfers, per la prima volta al Festival di Salisburgo
Non si dimentica del bicentenario di Jacques Offenbach il Festival di Salisburgo, che mai aveva allestito un lavoro del celebre operettista del Secondo Impero nella sua storia centenaria. La scelta cade sul titolo più celebre del ricco catalogo del compositore, ossia quell’Orphée aux Enfers, un po’ snobbato nelle sale d’opera europee, che per lo più hanno preferito festeggiarlo con lavori meno noti. Per questa prima assoluta a Salisburgo arriva Barrie Kosky: se anche per lui si tratta di una prima volta, non lo è di certo nell’operetta grazie alla quale è riuscito a dare alla Komische Oper di Berlino un profilo originale, oltre a creare un marchio di grande successo.
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Questo nuovo Offenbach, coprodotto da Salisburgo con il suo teatro e la Deutsche Oper am Rhein, porta evidentissima l’impronta del regista australiano soprattutto nella straordinaria energia che riesce a ottenere da tutti gli interpreti e dalla ben nota padronanza del palcoscenico. E ovviamente nell’originalità e libertà con la quale affronta i lavori che mette in scena: questo suo Orphée aux Enfers è ruvido e sulfureo (siamo o no all’inferno?), scurrile e osceno (il can-can non è certo roba da educande), gioiosamente impudico e sessualmente promiscuo, comunque lontanissimo dagli edulcoranti cliché sui quali di solito ci si adagia quando si fa l’operetta – e in questo vicinissimo allo spirito del primo Offenbach, caustico schernitore del moralismo di facciata della Parigi del Secondo Impero.
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Poco interessato alle pratiche filologiche (basta che funzioni), Kosky sceglie ovviamente la prima versione del 1858 ma vi innesta sostanziali aggiunte dalla versione più levigata del 1874, producendo di fatto un ibrido, e risolve l’annosa questione dei dialoghi, sempre problematici per i cantanti, dando un rilievo del tutto speciale al personaggio di John Styx, uno straordinario Max Hopp, che agisce letteralmente da doppiatore per il parlato (in tedesco) di tutti i personaggi oltre che da spassoso rumorista. E, come fa spesso, Kosky tiene tutto insieme con le frenetiche coreografie di Otto Pichler, che coinvolgono davvero tutti e non solo i dodici vitaminici danzatori. L’effetto è divertente e straniante allo stesso tempo, come lo è la recitazione esasperata richiesta agli interpreti, che fa pensare piuttosto alle atmosfere del cabaret espressionista berlinese, nonostante le scenografie povere ma certo non di idee dietro l’arcoscenico sbrecciato di Rufus Didwiszus e il profluvio di coloratissimi e esagerati costumi di Victoria Behr che invece rievocano una povera ma vitalissima Parigi fin de siècle.
Locandina di lusso per questo Offenbach che vanta la “guest star” Ann Sofie von Otter nel ruolo dell’Opinion Publique, austera negli abiti neri da beghina, che si diverte in uno stralunato intermezzo prima della seconda parte con la barcarola offenbachiana del 1852 “Dites, la jeune belle / où voulez-vous aller?” vestita da diva del varietà con mantella giallo-arancio e turbante violetto. Davvero indiavolata l’Eurydice in guepière postribolare di Kathryn Lewek, donna “con gli attributi” (alla lettera) e determinatissima ad affrancarsi dalla tutela dei maschi, oltre che spericolata sul piano vocale. Lewek è anche la protagonista di una polemica sul body shaming, seguita ai commenti del critico del quotidiano tedesco Die Welt nella sua recensione.
Da vera mattatrice, Lewek mette un po’ in ombra l’Orphée di Joel Prieto, giovane tenore dal bel timbro ma piuttosto trattenuto sul piano scenico. Difficile tener testa alla mimica irresistibile del mazzolatissimo Jupiter di Martin Winkler e dell’ammiccante Aristée/Pluton vocalmente (e non solo) ermafrodita di Marcel Beekman, protagonisti di una spassosissima scena a due nel primo atto. Sulla stessa linea le spiritate divine di Vasilisa Berzhanskaya (Diane) e Frances Pappas (Junon), mentre più delicato è il ritrattino della Venus di Lea Desandre. Completano la variegata popolazione dell’Olimpo il Cupidon che dà mostra di saperla lunga di Nadine Weissmann, il Mercure forse troppo stagionato di Peter Renz (ne soffre il suo celebre saltarello) e il Mars pochissimo bellicoso di Rafał Pawnuk. Il Vocalconsort di Berlino aggiunge brio e pepe all’insieme.
Sorprendente la capacità dei Wiener Philharmoniker di calarsi nel chiassoso universo sonoro del piccolo Mozart degli Champs-Elysées. Ma si sa che il valore di un’orchestra si misura anche nella sua capacità di essere credibile in ogni repertorio e sul valore dei Wiener non ci sono dubbi. Maieuta dello spirito dionisiaco che i Wiener generosamente infondono in questo Orphée aux Enfers è Enrique Mazzola, alleato perfetto in buca della vitalità impressa da Kosky alla scena.
Una vitalità che contagia il solitamente ingessato pubblico salisburghese, unanime nel decretare un sonoro successo a questo primo Offenbach in riva alla Salzach.
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