West Side Story tra i ruderi dell’antica Roma
Il musical di Leonard Bernstein entusiasma il pubblico delle Terme di Caracalla

West Side Story è uno dei capolavori del musica del Novecento e insieme a Porgy and Bess è il maggior contributo del nuovo continente al teatro musicale, però non è un’opera tradizionale ma un musical scritto per Broadway ma questa non è una buona ragione per giustificare le sue rarissime presenze nei teatri operistici, almeno per quanto riguarda l’Europa. Il Teatro dell’Opera di Roma l’aveva rappresentato due volte, nel 1986 e nel 2000, ma sul palcoscenico sussidiario del Teatro Brancaccio e con compagnie ospiti. Va ricordata anche un’edizione diretta da Pappano all’Accademia di Santa Cecilia in memoria di Leonard Bernstein, che dell’orchestra romana era stato presidente onorario. Era in forma di concerto e un po' abbreviata ma di eccellente livello musicale. Mancava inevitabilmente tutta la parte visiva, che per la prima rappresentazione a Broadway nel 1957 era stata realizzata da Jerome Robbins, le cui coreografie sono parte integrante del musical di Bernstein e ne costituiscono un elemento fondamentale: chi ha visto il film realizzato nel 1961 - vincitore di ben undici premi Oscar - non potrà mai dimenticarle.
Ma è stato giusto mettere da parte la nostalgia del passato e realizzare una messa in scena totalmente nuova, affidando la regia a Damiano Michieletto, che ha coinvolto i suoi fidi collaboratori Paolo Fantin per le scene, Carla Teti per i costumi e Alessandro Carletti per le luci. Sasha Riva e Simone Repele hanno creato le coreografie, che erano fortemente integrate nella regia, come devono assolutamente essere, tanto che in molti momenti recitazione e danza si fondono al punto che diventa difficile separare l’una dall’altra. Senza dubbio è attribuibile a Michieletto l’idea della scena fissa rappresentante una grande piscina in abbandono, senz’acqua e con vari pneumatici sparsi qua e là, a significare la decadenza del sogno americano, ribadita nella seconda parte dalla fiaccola della Statua della Libertà spezzata e crollata nella piscina. E il trampolino della piscina torna utile per sostituire il balcone su cui i protagonisti Tony e Maria cantano il loro famoso duetto d’amore (una delle tante analogie con la tragica vicenda degli shakespeariani Romeo e Giulietta).
Quest’ambiente geometrico e freddo non sostituisce efficacemente il quartiere popolare e degradato di New York, nelle cui strade e nelle cui case (ma qui non c’è distinzione tra interni ed esterni) sono ambientate le vicende dei due gruppi di giovani, che, novelli Capuleti e Montecchi, si affrontano per affermare il loro predominio o forse soltanto per dare sfogo alle loro frustrazioni: gli Sharks sono immigrati portoricani, mentre i Jets si sentono veri “americani” ma sono anche loro immigrati o figli di immigrati. Tutte le prime scene sono dedicate alla descrizione di questo mondo ma, se si cambia o piuttosto si abolisce completamente il contesto e le si ambienta in una piscina, perdono molto del loro significato e della loro forza drammatica. La recitazione pure è poco efficace: la trovata principale è spostare sul palcoscenico grandi lettere montate su rotelle per formare alcune parole, che sono quasi l’una l’anagramma dell’altra, come “Miracle”, “America”, “Maria”. Non è così che si esprime la vitalità di quei ragazzi, la violenza di quelle bande, la miseria di quel mondo. Si aggiunga che ai Jets sono fatte indossare caricaturali parrucche color platino e vestiti bianchi un po’ geometrici, che ne fanno quasi dei pupazzetti. Fortunatamente sono più azzeccati i vivaci e colorati costumi degli Sharks, a cui sembrano andare le simpatie di Michieletto e dei suoi collaboratori (e anche le nostre).
Si aggiunga che lunghi parlati intervallano le parti musicate e si capirà perché la prima mezz’ora abbondante sembri più lunga di quanto effettivamente dura. Ma nel prosieguo della prima parte lo sviluppo della vicenda si fa più serrato, per esplodere nella seconda parte in una drammaticità irresistibilmente coinvolgente. La recitazione si fa stringente, le coreografie diventano travolgenti per i loro ritmi e allo stesso tempo colgono la tragicità di quel che sta avvenendo. E il Corpo di Ballo dell’Opera non si limita a danzare benissimo (oltretutto il concetto di fila qui non esiste e spesso ogni ballerino ha passi diversi dagli altri) e deve anche recitare, viceversa i cantanti devono anche danzare, cavandosela benissimo, perché sono cantanti di musical e non d’opera. Uno dei pochi cantanti anglofoni del cast è Marek Zurowski (Tony), un americano di origine polacca, proprio come il personaggio che interpreta: recita e canta in modo ideale, con una franca voce tenorile che si fonde benissimo con quella sopranile di Sofia Caselli (Maria), italiana ma con diplomi e lauree in musical theatre in Inghilterra. Entrambi (e non solo loro) si calano perfettamente nella loro parte e riescano a trascinare ed entusiasmare gli spettatori. E pazienza se a tratti trascurano l’intonazione perfetta: che questo rientri nello stile di questo tipo di teatro musicale, in cui il cantato scivola continuamente nel parlato e viceversa? I solisti sono tutti bravi e perfettamente in parte, ma sono una trentina e quindi ci limitiamo a citare i principali: Sergio Giacomelli (Bernardo), Natascia Fonzetti (Anita), Sam Brown (Riff), Mark Biocca (Diesel), Felice Lungo (Chino), Giorgia Ferrara (Anybodys).
Sul podio sta Michele Mariotti che con la sua polimorfa attività di direttore musicale del teatro romano sta dimostrando una grande e insospettata versatilità, a cui ora aggiunge un ulteriore tassello: la sua direzione di questo musical americano, galvanizzante per la sua energia e il suo ritmo, farebbe invidia a qualunque direttore specializzato in questo genere musicale. In più Mariotti ha anche una totale padronanza dell’orchestra ed è in grado di spingerla a velocità trascinante e subito dopo ricavarne raffinate delicatezze, colori morbidi, atmosfere tenere e sentimentali. Anche l’orchestra sembra perfettamente a casa sua in questo genere per lei nuovo. Come ha ribadito l’entusiasmante bis concesso a furor di popolo (mi riferisco alla replica del 9 luglio) alla fine dello spettacolo: il celebre mambo, in cui anche i danzatori hanno fatto faville.
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