L’intimo Pandemonium di Capossela

Successo a Ravenna Festival per il ritorno dal vivo di Vinicio Capossela, tra riflessioni e nostalgie

Vinicio Capossela - Pandemonium - Ravenna Festival (foto di Luca Concas)
Vinicio Capossela a Ravenna Festival (foto di Luca Concas)
Recensione
pop
Ravenna, Rocca Brancaleone
Vinicio Capossela, Pandemonium
17 Luglio 2020

Era in vena di nostalgie Vinicio Capossela, protagonista venerdì scorso dello spettacolo Pandemonium, appuntamento che lo ha visto ritornare ad abitare le assi di un palcoscenico dopo il blocco da emergenza Covid19. Ospitato nel variegato e “reinventato” cartellone del Ravenna Festival 2020, il suo multiforme bestiario sonoro è stato accolto in uno scaramantico venerdì 17 da una Rocca Brancaleone che si è rivelata una sorta di ampio e stranamente raccolto ritrovo a cielo aperto per seguaci di un rito musicale che solitamente prevede una partecipazione più attiva, più fisica.

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Costretto sulle proprie sedie dalle doverose prescrizioni di sicurezza, il folto pubblico ha quindi seguito il dipanarsi di un racconto in musica e parole che Capossela ha tratteggiato con un garbo quasi ridondante, tra riflessioni che hanno coniugato «Pan [e] Daimon, tutti i demoni che fanno la complessità della nostra natura, tutte le stanze di cui è composto il bordello del nostro cuore» con il contributo di un compagno di viaggio particolare come lo può essere «un rumorista intraterrestre, Vincenzo Vasi, [che] è lì per fare sentire la mancanza dell’orchestra, non per colmarla».

Capossela Ravenna Festival
Foto di Luca Concas

Parole e musica, quindi, miscelati in “duo” in un crogiuolo dove si fondevano il passato e il presente di un artista che del mascheramento – di stili musicali, di intrecci letterari, di fogge dell’apparenza – ha fatto il suo caleidoscopico marchio di fabbrica. Una fucina da Mangiafuoco delle note e dei versi che in questa occasione si è rivelata un antro riservato, una sorta di ventre molle e intimo di una balena che Capossela ha riempito di frammenti sparpagliati, disseminati vagando tra il pianoforte al centro del palco e il simulacro di un “Pandemonium” – «questo enorme strumento, un grande organo fatto di metalli estratti dalle viscere della terra, dalle creature intraterrestri, i nani che battono e forgiano nelle cavità ctonie» – dietro al quale il cantante appariva una sorta di bonario Principe Dakkar alle prese con l’organo del suo Nautilus.

Tra atmosfere mutate man mano che si cambiano i cappelli, clavicembalismi sintetici, incursioni sentimentali stropicciate alla tastiera e coinvolgenti alchimie tra suoni e rumori e sinuosità da theremin plasmate dall’instancabile Vasi, Capossela ha saputo ritagliare momenti di bella intensità, ora rovistando con confidenza tra i tasti del pianoforte in “Ovunque proteggi”, ora accarezzando con singolare garbo le corde della chitarra in “Il povero Cristo”, arrivando poi all’omaggio agrodolce, assieme melanconico e goliardico, di “Marajà” o ancora alla casuale ma pregnante distonia emotiva – tra derive social ormai conosciute e pandemie inaspettate – incarnata da “La peste”, fino ad arrivare all’umido e crudo fumetto dark tratteggiato nell’intensa “Tanco del murazzo”.

Uno spettacolo sincero e diretto, in sostanza, che ha saputo coinvolgere il pubblico presente al punto che anche le parole dimenticate dei testi divenivano elemento di condivisione, di affinità di intenti, di un’empatia che gli applausi conclusivi hanno suggellato come alla fine di un rito che si è rivelato, assieme, propiziatorio e liberatorio, in qualche modo benedetto, appunto, proprio attraverso quel “liquore che strega le parole”.

Capossela Ravenna Festival
Foto di Luca Concas

 

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