La psiche di Violetta è protagonista

Una Traviata intima e “psicanalitica” alle Terme di Caracalla

La traviata (foto Fabrizio Sansoni-Teatro dell'Opera di Roma)
La traviata (foto Fabrizio Sansoni-Teatro dell'Opera di Roma)
Recensione
classica
Roma, Caracalla Festival
La traviata
19 Luglio 2025 - 03 Agosto 2025

Prosegue il festival estivo del Teatro dell’Opera alle Terme di Caracalla, la cui programmazione è stata affidata quest’anno a Damiano Michieletto, che ha riservato a sé stesso la regia di West Side Story e per La traviata  ha scelto Slava Daubnerova, una giovane slovacca che nel suo curriculum ha poche regie operistiche e tutte concentrate in un’area geografica piuttosto ristretta, tra Praga, Bratislava e un paio di teatri tedeschi di provincia. Michieletto ha dimostrato ottimo fiuto a scoprirla. In questa sua regia la Daubnerova usa un linguaggio teatrale moderno ma a differenza di altri registi ‘d’avanguardia’ non tradisce Verdi con invenzioni cervellotiche. “La storia è raccontata dalla sua [di Violetta] prospettiva”, come spiega ella stessa, ma non ce ne sarebbe bisogno, perché è una regia comprensibile a tutti, convincente, efficace, incisiva. La narrazione si concentra su Violetta, “sulla [sua] solitudine, sulla sofferenza per lo stigma sociale causato dalla malattia e dalla prostituzione”. La malattia che corrode e distrugge il suo corpo è metafora della sua psiche devastata dagli abusi e dalle umiliazioni subite fin dalla tenera infanzia. La scena (di Alexandre Corazzola) è semivuota: vi compaiono a tratti una porta, un tavolo, un pianoforte, un divano e poco altro, ma tutto il lato destro è dominato dall’enorme busto acefalo di una donna nuda. Violetta fa la sua entrata in scena indossando una lunga giacca nera, che subito si toglie e resta coperta soltanto da un succinto body nero (costumi di Katerina Hubena), che è l’immagine di come il suo corpo e anche la sua psiche siano indifesi ed esposti al giudizio e alle prevaricazioni di quei borghesi moralisti e benpensanti che, vestiti tutti – uomini e donne – in abiti ottocenteschi totalmente neri, assistono immobili alle feste del primo e del secondo atto come spettatori che osservano e giudicano. Solamente nell’ultimo atto, ambientato nell’asettica stanza di una moderna clinica, Violetta dismette il body e indossa un camicione da inferma ospedalizzata, che la fa apparire ancora più indifesa e vulnerabile. E una cuffia le copre la testa, poiché è rimasta calva a causa della chemioterapia: ai nostri giorni il male implacabile non è più la tisi ma il cancro.

La regia punta empaticamente ma inesorabilmente il riflettore su Violetta, la cui recitazione è intensa ma minimalista, assolutamente scevra di grandi gesti melodrammatici. A portare movimento in scena provvedono fin dal preludio i ballerini, che sono apparizioni surreali, anch’esse nere ma di un nero che in questo caso non significa perbenismo ipocrita ma presagio di morte. Anche le danze delle zingarelle e dei toreri nella festa a casa di Flora vengono sottratte al loro decorativismo e assumono una valenza oscura, inquietante. Firma le coreografie Ermanno Sbezzo.

I personaggi minori non hanno rilievo individuale, perché non sono che ricordi e pensieri di Violetta. Lo stesso Alfredo è poco più che la ‘spalla’ di Violetta, che su lui proietta il suo sogno d’un amore vero, che sarà anch’esso cancellato dal perbenismo borghese, incarnato questa volta da Giorgio Germont, a cui Violetta si piega, come ha dovuto fare per tutta la vita nei rapporti con gli uomini di una classe sociale superiore alla sua e come tornerà a fare ancora una volta - l’ultima - con il barone Douphol. 

Non sarebbe stato possibile realizzare questa regia senza Corinne Winters, non perché ha un fisico che le permette di stare in scena indossando solo un body ma perché è un’attrice formidabile, capace di esprimere con minime espressioni e minimi gesti tutta la gamma dei sentimenti profondi di Violetta. La sua recitazione è molto drammatica e quindi nient’affatto melodrammatica. “Una delle grandi rivoluzioni introdotte dal teatro di Verdi è la centralità data alla psicologia dei personaggi... Nella Traviata in particolare i sentimenti non sono semplicemente raccontati: vengono trasmessi attraverso la musica”: sono parole del direttore Francesco Lanzillotta e il fatto che potrebbero essere attribuite anche alla regista e alla protagonista indica una totale concordia d’intenti, che è uno dei punti di forza di questa edizione di Traviata. Come già detto, la Winters è una grande attrice, ma il termine ‘attrice’ è inadeguato, perché non dà mai l’impressione di recitare una parte ma è Violetta, si identifica con lei con una forza che si trasmette al pubblico e lo convince almeno per una sera che la sua sia l’unica possibile vera interpretazione di Violetta. E come cantante? È una grande cantante, ma anche qui il temine ‘cantante’ è inadeguato. L’avevamo ascoltato a Roma in Mozart, Janacek , Poulenc  e infine Puccini che sono autori diversissimi tra loro e tutti diversissimi da Verdi. Gli scettici si chiederanno come una cantante che ha fatto il suo debutto all’Opera di Roma con Katia Kabanova sia riuscita a cavarsela con le impervie agilità belcantistiche di “Sempre libera”. Ebbene la Winters non ha mostrato la minima difficoltà ma la cosa più importante è che sia andata oltre la fase primordiale della dimostrazione virtuosistica e abbia messo in primo piano il valore espressivo di quelle note. E la pronuncia è impeccabile: non solo fa capire ogni sillaba ma dà al nostro idioma quella spontaneità carica di significato che perfino i cantanti italiani rarissimamente hanno. Riassumendo: il timbro ricco di colori e l’assoluta padronanza tecnica, unite alla sensibilità e all’intelligenza dell’interprete, le permettono di creare una Violetta come non ne ho mai ascoltate nella mia lunga carriera di musicofilo.

La traviata (foto Fabrizio Sansoni-Teatro dell'Opera di Roma)
La traviata (foto Fabrizio Sansoni-Teatro dell'Opera di Roma)

Come già accennato, Alfredo non ha grande rilievo nella concezione registica della Daubnerova e diventa quasi (sto esagerando) un comprimario di lusso. Il polacco Piotr Buszewski è ideale per un Alfredo così. Con la sua voce un po’ anonima ma sicura e robusta e con un timbro privo di fascino tratteggia un personaggio superficiale, rigido, perfino un po’ ottuso, che non è all’altezza delle speranze che Violetta ha riposto in lui. Non ci si può aspettare nulla di più da un tipo che dopo l’ “Amami Alfredo” di Violetta non trova di meglio da dire che “Vive sol quel core all’amor mio”. 

Giorgio Germont è rappresentato come un borghese chiuso nel suo elegante abito e nei suoi preconcetti, ma non totalmente insensibile al dolore di Violetta, sia al momento del loro incontro-scontro nel secondo atto sia quando la ritrova morente nel terzo. Luca Micheletti ne è un interprete vocalmente e scenicamente impeccabile ma anche un po’ inamidato, però questo si addice al personaggio. Bene i comprimari Sofia Barbashova (Annina), Maria Elena Pepi (Flora) Roberto Accurso (il barone), Alejo Alvarez Castillo (il marchese), Mattia Denti (il dottore) e Christian Collia (Gastone).

L’altro protagonista di questa Traviata, accanto a Daubnerova e Winters, è Francesco Lanzillotta. È una direzione attenta - come egli stesso afferma - ai dettagli psicologici, che sono ciò che rende La Traviata  diversa da ogni altra opera di quegli anni. I tempi sono lievemente più lenti e le dinamiche più contenute del consueto, per rispecchiare l’animo di Violetta, che vive tra le feste parigine ma non partecipa a quelle atmosfere allegre, devastata com’è dalle umiliazioni e dalla malattia. L’orchestra è in continuo dialogo con Violetta, parla per lei quand’ella tace, penetra nella sua anima e la rivela all’ascoltatore. Sono innumerevoli i dettagli orchestrali che appaiono in una luce nuova: citiamo l’accordo dell’orchestra sotto a “È tardi!”, cupo ma non cataclismatico, e il suono dei contrabbassi che nell’ultimo atto non resta nascosto dagli strumenti più acuti e, pur senza eccedere e restando in sottofondo, diventa comunque ben udibile, come un presagio della tragedia che incombe. Gli altri personaggi non sono certamente trascurati: citiamo a titolo d’esempio il delicato e solare interludio di ottavino, flauto e oboe tra la prima e la seconda parte di “Di Provenza il mar, il suol”, che echeggia la nostalgia di Germont per le luci, i colori e i profumi del suo paese mediterraneo. 

Ma certamente la direzione di Lanzillotta non si limita a dettagli splendidi ma isolati. Anche qui portiamo un solo esempio: il preludio del terzo atto, che non è soltanto tristissimo nell’accezione banalmente sentimentale del termine ma è già al di là del mondo, desolato, stremato, lentissimo, un soffio quasi privo di colori e di dinamiche, che si spegne veramente “morendo”, come indica Verdi. Senza cesure si passa all’atto vero e proprio, sulle cui prime scene si stende lo stesso velo mortifero del preludio: “come sempre”, qualcuno potrebbe dire, ma questa volta è tutto sottilmente ma profondamente diverso. E diverse sono anche le poche battute del carnevale che “impazza” nelle strade di Parigi, il cui suono giunge da lontano ma stridente (i sibili degli ottavini, i tromboni sguaiati, le nacchere e il tamburello) e quasi oltraggioso verso la tragedia che si sta svolgendo sulla scena.

La vasta platea era strapiena e ha ringraziato con applausi prolungati (nonostante l’ora tarda) e calorosissimi tutti gli interpreti tutti e in particolar modo Winters, Lanzillotta e Micheletti.

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