La prima italiana di Adriana Mater di Kaija Saariaho

All’Opera di Roma uno dei capolavori della compositrice finlandese scomparsa due anni fa

MM

14 ottobre 2025 • 5 minuti di lettura

Adriana Mater (Foto Fabrizio Sansoni, Teatro dell'Opera di Roma)
Adriana Mater (Foto Fabrizio Sansoni, Teatro dell'Opera di Roma)

Teatro dell'Opera di Roma

Adriana Mater

09/10/2025 - 16/10/2025

Kaija Saariaho ha scelto per Adriana Mater la definizione più generica possibile, ovvero “opera”, ma avrebbe anche potuto chiamarla “tragedia in musica” o qualcosa di simile, perché il fato ha qui un peso soverchiante, cosicché il “focus” non è sulla psiche individuale dei vari personaggi e sulle loro personali vicende sentimentali ed esistenziali - come nel teatro europeo degli ultimi due secoli - ma su principi universali, che come nella tragedia greca si manifestano in situazioni archetipe, che ora non sono più i miti dell’antichità ma una loro versione moderna.

La trama - se così la si può definire - è questa. Adriana viene violentata da Tsargo, un capobanda aggressivo e prepotente. Ignorando i consigli della sorella Refka, decide di non abortire e di tenere il bambino. Ma vive nell’angoscia che suo figlio Yonas sia violento come il padre. Divenuto adulto Yonas viene a sapere come è nato e rimprovera la madre di avergli mentito: suo padre è un mostro e il figlio giura di ucciderlo. Ma Tsargo, quando torna dalla guerra, ha perso la vista, è cieco e prigioniero della notte. Il figlio non riesce ad ucciderlo, perché il DNA trasmessoci da chi ci ha generati non determina la nostra natura, non decide le nostre vite. “Quest’uomo meritava di morire - dice Adriana a Yonas - ma tu, figlio mio, non meritavi di ucciderlo”.

Tutto si svolge “in un paese in guerra, un luogo senza nome, ma che ricorda fortemente alcuni paesi dei Balcani alla fine del XX secolo”, quando imperversavano le guerre tra gli stati nati dalla dissoluzione della Jugoslavia, come dice l’autore del testo, il libanese naturalizzato francese Amin Maalouf, un personaggio importante nel mondo culturale d’oltralpe (è Segretario perpetuo dell’Académie Fançaise). Ma oggi quelle guerre sono già dimenticate e si pensa (si è costretti a pensare) ad altre guerre e domani si penserà ad altre guerre ancora. Fino a quando?

Ma la Saariaho trascende la cronaca ed esplora le cause profonde e le possibili conseguenze dalla violenza, per giungere all’affermazione o piuttosto alla speranza, che l’umanità possa rompere la spirale della violenza, aprire nuovi orizzonti e rinascere. Ecco dunque la catarsi finale, che ci trasporta in un mondo sonoro di totale serenità e purezza, che forse non apparirebbe così edenico se non venisse dopo quasi due ore di musica estremamente tesa, aspra, dura, brutale.

L’idea di partenza - suggestiva e potente - della compositrice finlandese è stata quella dei due cuori che battono nello stesso corpo, quello della madre e quello del figlio, due esseri che dapprima vivono in simbiosi ma poi si separano, prendono strade diverse, si ricongiungono. Ha quindi diviso l’orchestra in due gruppi, non separati fisicamente, che si dividono, si combinano, si contrappongono, proiettando nella musica la divisione e insieme l’inscindibilità dei protagonisti, dando vita ad un primo atto molto potente, senza un attimo di pausa che consenta all’ascoltatore di trarre un sia pur breve respiro. Da quest’orchestra magmatica e aggrovigliata, emergono alcune cellule “melodiche” e ritmiche più e più volte ripetute e sviluppate, che danno estrema compattezza al primo atto. Lo stile di canto potrebbe essere definito wagneriano, per la sua robustezza e per il suo procedere tra canto e recitativo in un flusso continuo. Nel secondo atto viene meno l’estrema compattezza del primo e si susseguono tre ampi episodi diversi e contrastanti, che spezzano quella tensione ma comunque tengono saldamente in pugno l’attenzione e la partecipazione dell’ascoltatore.

La prima rappresentazione di Adriana Mater, nel 2006 all’Opéra di Parigi, “fu una catastrofe”, per colpa di una serie di errori nella preparazione dello spettacolo, ma anche per alcuni difetti della musica, poi corretti dalla Saariaho, come racconta Peter Sellars, che era il regista. Vari anni dopo l’opera fu rappresentata a San Francisco non però nel locale teatro dell’opera ma nella sala da concerti della San Francisco Symphony Orchestra, con una nuova regia di Sellars. È l’edizione - anche i cantanti erano gli stessi - che è stata adesso portata a Roma dal Teatro dell’Opera. Sul palcoscenico del Teatro Costanzi erano schierati un’orchestra di grandi dimensioni e un coro di dimensioni ridotte, mentre i quattro personaggi agivano tra i leggii dell’orchestra o in un piccolo spazio rimasto sgombro davanti all’orchestra. Perfetto, non ci voleva nulla di più né di meno. Non esiste infatti azione, tutto si svolge nella coscienza dei personaggi (dello stupro non c’è traccia in scena). Questa musica, come dice Sellars, evoca “un palcoscenico vuoto con i personaggi che si confrontano senza concessioni a una qualsiasi sorta di realismo borghese. Kaja e Amin [la compositrice e il librettista] escogitarono la presenza di un sogno per ogni scena, in modo che i livelli della realtà emersi dalla vicenda si moltiplicassero e si sovrapponessero”. Sogni che, continua Sellars, sono “un rimando alla tragedia greca in cui i sogni sono le presenze degli dei, degli oracoli, delle visioni, delle storie riproposte sotto nuove forme”.

In conclusione, è una musica di tensione quasi (e forse toglierei il quasi) insopportabile e di grande forza magnetica, di cui si cerca di non perderne una nota. Sicuramente non è una musica gradevole ma una musica che suscita un senso di fatica e quasi di dolore e allo stesso tempo instilla una forma di piacere: qualcuno, non riferendosi però a quest’opera, ha parlato di una sorta di masochismo latente in ogni ascoltatore e/o spettatore di pièces teatrali e musicali che fanno rivivere dolori, sofferenze e tragedie.

La scarna regia di Sellars era assolutamente perfetta per questa musica. Il contributo della costumista Camille Assaf era limitato ai quattro semplici e dimessi costumi dei protagonisti, mentre determinante era il ruolo delle luci di Ben Zamora e del sound design di Timo Kurkikangas. Encomiabili i quattro cantanti, che hanno affrontato con grande impegno un compito arduo e faticoso: Fleur Barron interpretava Adriana, Axelle Fanyo sua sorella Refka, Christpopher Purves il cattivo Tsargo, Nicholas Phan il figlio Yonas. Ma il ruolo di protagonista assoluta di quest’opera è dell’orchestra e quella del Teatro dell’Opera di Roma si è fatta ammirare per la tensione mozzafiato che ha saputo mantenere dall’inizio alla fine e per il rilievo dato al turbine di dettagli che danno vita a questa complessa partitura. Altrettanto ammirevole il coro istruito da Ciro Visco. Il tutto sotto la guida attentissima e allo stesso tempo ribollente del direttore spagnolo Ernst Martìnez Izquierdo.

Era uno spettacolo di grande forza, accolto positivamente dal pubblico, che non riempiva totalmente la vasta sala del Costanzi ma era comunque numeroso per un’opera contemporanea di una compositrice famosa in metà del pianeta ma poco nota in Italia.