Un “Giro di vite” che penetra negli anditi più oscuri e intricati della psiche

All’Opera di Roma un’ideale edizione dell’opera di Britten con la regia di Deborah Warner e la direzione di Ben Glassberg

MM

23 settembre 2025 • 6 minuti di lettura

The Turn of the Screw (Foto Fabrizio Sansoni)
The Turn of the Screw (Foto Fabrizio Sansoni)

Teatro dell'Opera di Roma

The Turn of the Screw

18/09/2025 - 28/09/2025

The turn of the screw (Il giro di vite) è stata commissionata dalla Biennale di Venezia, dove ha avuto la prima rappresentazione assoluta nel 1954, e anche dopo ha mantenuto con l’Italia un legame più stretto di qualsiasi altra opera di Benjamin Britten, come documentano le numerose edizioni che ha avuto nei teatri e festival della nostra penisola. Eppure non aveva assolutamente nulla che sembrasse predestinarla a diventare un’opera di successo. A Roma è giunta nel 1970, quando fu proposta dall’Accademia Filarmonica al Teatro Olimpico nell’allestimento scaligero dell’anno precedente con la regia di Virginio Puecher e la direzione di Ettore Gracis. È seguito nel 1997 l’allestimento del Teatro dell’Opera con la regia di Luca Ronconi, che scelse di portarla sul palcoscenico del Teatro Argentina, preferendolo a quello più ampio del Teatro Costanzi.

Quest’excursus nel passato serve a evidenziare come portare ora quest’opera da camera (anche l’orchestra è cameristica, appena tredici strumentisti) non su palcoscenici di dimensioni ridotte come l’Olimpico e l’Argentina ma al Costanzi sia una scelta precisa e vincente. Quell’ampio spazio pressoché vuoto e quasi interamente nero creato sul palcoscenico del Costanzi dalle scene di Justin Nardella (e dalle luci, fondamentali, di Jean Kalman) è il non-luogo ideale per un’opera ambientata in una grande villa vittoriana che sorge nel nulla, totalmente isolata dal resto del mondo.

Così dicono le didascalie del libretto, ma si direbbe piuttosto che tutto si svolga nella mente o più esattamente nell’inconscio dei sei personaggi. Sono due donne adulte - la nevrotica istitutrice Mrs Grose e la governante confusa e sperduta, senza nemmeno un nome - che si muovono come a tentoni in quel buio misterioso: sono le uniche che abbiano un aggancio, seppur debole, incerto, oscillante e precario, con la realtà. Ci sono poi due altri adulti - l’istitutrice e il servitore precedenti, Miss Jessel e Quint - che nel racconto di Henry James, da cui è tratto il libretto, sono due personaggi muti ma nell’opera devono inevitabilmente comparire in carne ed ossa e cantare, lasciando così lo spettatore nell’incertezza se siano persone reali o fantasmi creati dalla mente delle due donne. Infine - e sono i veri protagonisti intorno a cui tutto ruota - due bambini, personaggi indubbiamente reali, ma che vedono e vivono il mondo in modo diverso da quello degli adulti e sono dunque misteriosi e impenetrabili agli adulti (quelli sul palcoscenico e quelli in platea) quanto e ancor più dei due che forse sono fantasmi e forse no. Sono loro i veri protagonisti, abbiamo detto, ma più esattamente il protagonista è Miles, il maschietto, come conferma il fatto che The turn of the screw si concluda, come ogni melodramma degno di questo nome, con la morte del protagonista: che non venga pugnalato o avvelenato né si suicidi, ma muoia per qualche inspiegabile maleficio di Quint, conferma che non siamo più nell’Ottocento ma a metà del ventesimo secolo.

Risale infatti al 1898 questo racconto lungo o romanzo breve di James, che si riaggancia alle storie di fantasmi che caratterizzavano il romanzo gotico, fiorito in Gran Bretagna nei decenni precedenti. Ma l’intento di James non era più tenere sulla corda il lettore e fargli provare brividi di paura. O forse l’intento era in parte ancora quello ma James vi portava una sensibilità nuova, rivolgendo il suo interesse ai recessi intricati e misteriosi dell’animo umano (o della psiche, che dir si voglia). D’altronde erano gli anni in cui a Vienna si cominciava a parlare - spesso negativamente - di un certo dottor Freud.

Rileggere quel racconto alla luce del ventesimo secolo è merito dell’abile libretto di Myfanwy Piper ma soprattutto della musica di Britten. La piccola orchestra conserva tutte le sezioni di un’orchestra sinfonica ma le riduce ognuna a uno e un solo strumento, così da offrire al compositore tutte le possibilità e tutti i colori di un’orchestra sinfonica ma allo stesso tempo dandole un suono spettrale. Questo mondo onirico, percorso da pensieri, sogni, incubi che si ripetono sempre uguali e sempre diversi, senza possibilità di uscita, è rispecchiato dalla struttura musicale, costituita da quindici libere variazioni, molto libere. Dunque un’atmosfera opprimente ma non statica, anzi continuamente cangiante.

Confesso che - forse perché sono totalmente refrattario alle atmosfere horror, che si tratti di vampiri, serial killer o quant’altro - trovo il racconto di James perfetto ma molto letterario e intellettualistico. Ma Britten era personalmente coinvolto in questa storia per motivi profondi e segreti: provava infatti una forte attrazione per i giovanissimi di sesso maschile e, pur tenendola sempre a bada ed evitando ogni comportamento scorretto, era lacerato da questa pulsione proibita e inconfessabile. Il tema della corruzione dell’innocenza - con esiti fatali - da parte di forze malvagie, demoniache, irrazionali torna anche in altre sue opere, come Billy Bud e Peter Grimes, dove però si tratta di adolescenti e non di bambini. È sintomatico che Britten abbia allacciato con David Hemmings - primo interprete del piccolo Miles e poi protagonista di film come Blowup, Profondo rosso e tanti altri - un rapporto di amicizia alquanto insolito, considerando che l’uno aveva quarantuno anni e l’altro tredici. Era chiaramente un’infatuazione da parte di Britten, che, come capita spesso all’amore, s’interruppe bruscamente e inspiegabilmente due anni dopo. Vogliamo ribadire che Hemmings ha sempre sostenuto categoricamente che la condotta di Britten nei suoi confronti fu irreprensibile.

La regia di Deborah Warner era stata magnifica già in occasione di altre due opere di Britten - Billy Bud e Peter Grimes - viste negli scorsi anni a Roma, ma questa volta è andata ancora oltre. Non c’era nulla di eclatante nella sua regia, che però ricreava più che perfettamente le atmosfere, apparentemente ripetitive ma in realtà sempre sottilmente diverse, di questa vicenda e i gesti di questi personaggi: la si può definire una serie di variazioni su un tema, come la musica stessa.

Perfetta anche l’esecuzione musicale. Sul podio stava Ben Glassberg, un trentunenne inglese emergente ma ancora quasi sconosciuto in Italia. Oltre al talento ha dimostrato una perfetta conoscenza di questa partitura - indispensabile qui più che mai - e una cura minuziosa ma non oziosa dei dettagli, che con prove evidentemente accuratissime e capillari ha portato a risultati impeccabili. Ottima la risposta dei tredici elementi dell’orchestra dell’Opera.

Impareggiabile il cast vocale, a cominciare da Ian Bostridge, interprete prima del Prologo e poi di Quint, che non è il personaggio che compare più spesso in scena ma è comunque il protagonista. Non credo ci sia ancora bisogno di celebrare la sua straordinaria duttilità vocale, che è il veicolo della sua altrettanto straordinaria intelligenza d’interprete. Una meglio dell’altra le tre donne: Emma Bell (Mrs Grose), Anna Prohaska (la governante) e Christine Rice (Miss Jessel). Di tutti e quattro va sottolineata l’eccezionale capacità attoriale, che è una specialità della scuola anglosassone. Poi ci sono i due bambini, Zandy Hull e Cecily Balmforth, rispettivamente di dodici e dieci anni, che interpretavano Miles e Flora: impressionanti le loro capacità vocali e ancor più quelle attoriali, che rivelavano una padronanza della scena che normalmente hanno solo le vecchie volpi del palcoscenico. Bravi, troppo bravi! Forse un tocco di ingenuità e di immaturità sarebbe stato consono a queste figure infantili. Ma questo significa essere proprio incontentabili, perché l’Opera questa volta ha messo ha segno un vero en plein.

Il teatro era non proprio esaurito ma quasi pieno, che è un ben risultato per un’opera moderna. Il pubblico ha salutato con calore e anche con punte d’entusiasmo direttore, cantanti ed equipe registica.