All’Opera di Roma un Elisir d’amore musicalmente eccellente

Grande successo per i cantanti e il direttore Francesco Lanzillotta, mentre la regia di Ruggero Cappuccio mostra gli anni

L'elisir d'amore (Foto Fabrizio Sansoni)
L'elisir d'amore (Foto Fabrizio Sansoni)
Recensione
classica
Teatro dell'Opera di Roma
L'elisir d'amore
11 Gennaio 2023 - 15 Gennaio 2023

Questo Elisir d’amore  lo si era già visto all’Opera nel 2011 e poi nuovamente nel 2014. La prima volta era piaciuto, ora molto meno. Forse il regista Ruggero Cappuccio l’ha ripreso in modo un po’ approssimativo, forse ha calcato la mano sull’invadente presenza di giocolieri, acrobati e clown e sugli ancheggiamenti e i balli in stile discoteca che solisti, coro e comparse accennano ogni volta che in orchestra c’è un ritmo un po’ brillante, e talvolta anche quando non c’è. O forse ormai abbiamo visto molti, troppi spettacoli col circo e con i ballettini e ci è venuta l’allergia. O forse dodici anni sono tanti e lo spettacolo è naturalmente invecchiato.

Reggono meglio al tempo le scene minimaliste e candidissime di Nicola Rubertelli, i costumi anch’essi candidissimi ma ravvivati da brillanti tocchi di colore di Carlo Poggioli e le luci candide e zenitali di Vinicio Cheli: tutto questo candore è un piacere per l’occhio, ma siamo sicuri che sia adatto ad un’opera che ha qualche momento di vivace luminosità e di sfrenata allegria ma è più spesso venata di tenerezza e malinconia? Anche il regista e i suoi collaboratori finalmente se ne accorgono, almeno al momento della “Furtiva lagrima” e la successiva aria di Adina “Prendi, per me sei libero”, che si trasforma nel duettino in cui finalmente i due si abbracciano. In queste scene le luci si attenuano e prendono un colore un po’ surreale ma tenero e delicato, spariscono i clown e i ballettini, e i due protagonisti finalmente interagiscono tra di loro, dopo aver passato il 99% di quel che precedeva rivolti verso il pubblico, senza nemmeno guardarsi.

In particolare l’aria di Nemorino merita qualche riga. Naturalmente lui è solo in scena, ma non del tutto, perché dietro di lui un’acrobata evoluisce delicatamente e in precario equilibrio, sospesa ad un nastro rosso che cala dal cielo: un’allegoria dell’amore tanto semplice e incantevole quanto intensa e suggestiva, indimenticabile. Anche perché quest’aria - come tutto il resto della sua parte - è cantata splendidamente da John Osborn, che non ha una voce bella in sé ma è la perfezione del bel canto, che non è esibizione e virtuosismo, come spesso s’intende oggi, ma è “il cantar che nell’anima si sente”, come disse Rossini. E la “furtiva lagrima” di Osborn va dritta al cuore per due volte, perché concede il bis: la seconda volta la canta con tante piccole variazioni (il bello è che anche il bravo fagottista Eliseo Smordoni dà un tono diverso all’introduzione del fagotto!) rispetto alla prima, e sono entrambe un sogno.

Egualmente applauditissima l’Adina di Aleksandra Kurzakk. La sua voce è limpida nei cantabili (alcune note leggermente fisse non disturbano più che tanto) ed agile e squillante come un campanello d’argento negli acuti. Un vero soprano leggero ma in più con centri pieni e ben timbrati, quindi perfetta anche per i momenti più lirici. Soprattutto, grazie a una pronuncia italiana che definire ottima è poco, padroneggia totalmente le parole, sottolineandone di volta in volta la vivacità, l’arguzia, la tenerezza.

La cavatina d’entrata di Belcore è troppo smargiassa per il carattere e la voce di un cantante elegante e misurato come Alessio Arduini, che però nel corso dell’opera fa molto bene e si riscatta ad abundantiam.  Quando Dulcamara entra in scena la regia lo presenta come un nano, facendolo camminare sulle ginocchia: c’è qualcuno che sappia spiegarmene il motivo?  Fortunatamente non si può costringere a lungo un cantante in tale posizione, quindi presto si rialza. Per quel che lo riguarda, Simone Del Savio non dà affatto un’interpretazione così smaccatamente ridicola e grottesca di Dulcamare e anzi lo rende un personaggio più variegato, certamente un imbroglione, che però sa essere anche sottile e furbo, non soltanto un imbonitore: bravo! Giannetta solitamente passa quasi inosservata, ma non qui, perché Giulia Mazzola ha una personalità d’attrice prorompente, ma mai sopra le righe, e soprattutto una voce ben più che da comprimaria: la sua scena col coro del secondo atto diventa inopinatamente tra le più riuscite dell’opera, anche grazie alle voci femminili preparate splendidamente dal maestro del coro Ciro Visco. Quando poi alla scena si aggiungono Nemorino, Adina e Dulcamara, la Giannetta della Mazzola svetta con i suoi acuti anche sopra Adina, come d’altronde è scritto.

Viene il dubbio che, se tutto musicalmente va così bene, una buona parte del merito sia del direttore, ovvero Francesco Lanzillotta, che evidenzia in modo ideale, senza bisogno di sottolinearli troppo, i tanti dettagli della raffinata e sensibile orchestrazione di Donizetti. Nelle arie instaura uno stretto dialogo tra l’orchestra e le voci, dando così spessore psicologico ai personaggi. Tiene sempre in perfetto equilibrio l’orchestra con i solisti e il coro - se presente - nelle scene d’insieme, non limitandosi certamente a regolare il traffico, ma dando uno speciale brillio a tanti momenti, come la citata scena di Giannetta col coro. E i momenti esclusivamente orchestrali, dal preludio alle introduzioni delle arie, sono delle pure gemme. Senza voler sottovalutare gli ottimi risultati che ottiene nel suo vasto repertorio, che spazia dal barocco ai nostri giorni, bisogna riconoscere che questo direttore nelle opere del bel canto ha ben pochi rivali. Alla fine molti e calorosissimi appalusi per lui e i cantanti, qualche fischio isolato per il regista: nel complesso un ottimo successo da parte di un pubblico foltissimo.

 

Mauro Mariani

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