La prima edizione di Performative

Il MAXXI L’Aquila ha proposto un denso festival tra arte, danza, teatro e musica

Performative01 - L'Aquila (foto Francesco Scipioni)
Performative01 - L'Aquila (foto Francesco Scipioni)
Recensione
oltre
L’Aquila, MAXXI L’Aquila
Festival Performative01- CONTACT(LESS)
16 Settembre 2021 - 19 Settembre 2021

Il MAXXI L’Aquila, finalmente inauguratosi questa primavera nella magnifica sede del rococò Palazzo Ardinghelli (restaurato con fondi offerti dal governo russo), ha proposto nella prima metà di settembre una serie d’iniziative legate al dominio della performance (arte, danza, teatro e musica), culminate in un denso festival che, per la sua prima edizione, ha scelto il titolo CONTACT(LESS), non bisognoso di ulteriore commento. È una proposta che, in una città non certo priva di una periodica attenzione al contemporaneo (soprattutto in alcune discipline e in alcuni istituzioni, anche didattiche), torna a smuovere più visibilmente le acque entro un territorio di confronto, di convergenza, o semplicemente di compresenza tra le espressioni artistiche. D’altronde, a quanto si legge, i mezzi di cui dispone il MAXXI L’Aquila sono cospicui, dimensionati – sul periodo annuale – alla fascia alta delle altre istituzioni culturali cittadine; perciò, approntata l’esposizione di partenza con uno sforzo prevedibilmente extra-ordinario, considerata la non ampia disponibilità di spazi nella sede, l’effimero della performance può leggersi sia come un campo elettivo della creazione interdisciplinare, sia come una linea di proposta in parte obbligata: in qual modo percorsa, con particolare riferimento alle sue attinenze più riconoscibilmente ‘sonoro-musicali’, si proverà a raccontarlo di seguito.

Prima del festival vero e proprio, una serie di workshop e performance suono ruotati attorno a Virgilio Sieni, e hanno impegnato direttamente cittadini che hanno aderito a una chiamata aperta. La porzione più coinvolgente, anche nei numeri, è stata quella di Dolce Lotta_L’Aquila, un progetto attraverso il quale persone della più disparata abilità sono state portate a  introiettare, respirare e agire con tempi delibati alcune azioni su posture ricavate da vecchie foto, fornite da chi è stato toccato dal sisma: si tratta di un laboratorio sui corpi e sulla loro connessione coi luoghi, tra partecipazione e cura, che Sieni porta avanti da tempo nell’ambito di Territori del gesto, con grande serietà espressiva, e con risultati di notevole profondità e magia, cui la dislocazione dei performer a gruppi separati tra le sale del palazzo (a causa di sfavorevoli condizioni meteo) non ha tolto nulla – anzi! – in termini di significato collettivo dell’azione coreografica.

Il festival Performative01, che ha avuto quale partner privilegiato l’Accademie di Belle Arti dell’Aquila, si è aperto il 16 settembre con una serie di conferenze affacciate sul performativo, sia quanto a tema, sia quanto a modalità (ad es., quella di Cesare Pietroiusti, che ha didatticamente introdotto i presenti alla propriocezione orale dell’”oggetto piccolo” lacaniano). Se Maria Alicata ci ha informato di una buona parte delle con-formance di Fabio Mauri, e Giovanni Coccia disegnato un percorso in tre esempi sulla performance prestazionale (l’artista sonda su di sé situazioni di limite, senza apparenti obiettivi immediati), Silvano Manganaro ha posto – giustamente in chiave problematica – la questione della definizione di performance nel contesto artistico: il massimo comun denominatore proposto, ovvero la valorizzazione del corpo agente, è certo pertinente muovendo da quel contesto (nel quale l’elemento corporeo attivo è rientrato con futurismo, dada, action painting e così via), ma in una prospettiva transdisciplinare torna problematico quanto altre coordinate, dato che musica danza teatro lo incorporano quasi per costituzione; scegliere di percorrere un labirinto di frammenti di esperienze e pensiero teatrali, anche in una prospettiva definitoria, è stata la scelta – performativa essa stessa, e assai applaudita – di Marcello Gallucci.

La questione del corpo da ri-fare o ri-pensare è appunto emersa, con tutte le sue ambivalenze, da alcuni appuntamenti: se i Ninos du Brasil (un duo in realtà italiano) la tematizzano in modo fracassone ma trascinante, e non del tutto spiccio nel riferimento alla realtà povera ma spettacolare – o spettacolarizzata – della musica dei suburbi brasiliani, dove qualunque oggetto di ciarpame può diventare una percussione da techno, e un trucco kitsch l’elemento di un rito dionisiaco; se l’affiorare di textures più profilate da un fondo continuo, controllato coi piccolissimi gesti di manipolazione dell’apparecchiatura elettronica – nel trascolorante live set di Martina Raponi – è leggibile come una minimizzazione del corpo dentro il magma acustico (qualcosa di analogo, più tagliente e nitido nel progetto, nella riproduzione del testo di La cosa volatile con l’autore Piotr Hanzelewicz – statuario ma tensivo e quasi a disagio di sul palco – a modificare leggermente  la velocità della voce già alterata nella grana); ebbene, in altri casi il corpo del performer è parso elemento poco qualificante: perché considerare una performance, ad es., il dispiegamento modulare di Live Ammunition di Hassan Khan, che sembra gestirne ingresso e bilanciamento dalla consolle come un sequencer (certo, i moduli – soprattutto il clapping – rinviano alle opposte forze di protesta e repressione nell’Egitto recentissimo, ma di fatto è un piano meramente semiotico-compositivo)? o l’esibizione a solo – su un drone di sfondo – di Valentina Magaletti alla batteria (che questo sia uno strumento ‘maschile’, e che il gender in sé abbia valore di performance, è assunto ormai discutibile)?

La combinazione dell’elemento sonoro-musicale con altri non ha dato sempre, ugualmente, i brividi del performativo: la compresenza di azioni – sonore, gestuali, verbali – in Sabre è sembrata sommatoria senza il vero rischio dell’evenemenzialità, che invece dopotutto (in una prospettiva didattica) aleggiava nella seconda azione MOA compiuta dagli studenti dell’Accademia di Belle Arti, ciascuno impegnato in un proprio loop auto-referente – sonoro, gestuale, tattile, verbale – terminato da una delle azioni in gioco. L’atteso concerto-performance Perpendicolare di Cristina Donà & c. non è andato oltre un’espansione della formula musicale dal vivo (di contenuti e arrangiamenti peraltro raffinati), con qualche spunto interessante, ma bisognoso ancora di acquisire spessore nella ‘drammaturgia’. Convincente invece il meta-discorso imbastito da Italo Zuffi-Daniele Poccia-Giulia Vismara attorno alle parole  e a una perturbante opera – sul disegno di Hitler avente come soggetto il proprio maestro di pittura – di Fabio Mauri, del quale si riprende anche il concetto di Oscuramento attraverso un’azione effettivamente eseguita in sala (con la copertura graduale degli arazzi di William Kentridge in esposizione permanente) come dialettica tra creatività e censura. E convincente, nel progetto, anche l’installazione-performance Re-vival di Elena Bellantoni: i fruitori e insieme partecipanti avrebbero dovuto danzare disco scelta in cuffia tra tre decenni diversi, insieme a un(a) cubista cui indirizzarsi mediante segnali cromatici, dentro vetrine in vista di un negozio non in esercizio (nel centro dell’Aquila ve ne sono ancora molti, dopo il sisma), offrendosi a una [rap]presentazione sul crinale tra solipsismo, voyeurismo e dubitativa resilienza; peccato che, venuto meno per difficoltà normative lo spazio ‘commerciale’, parte del messaggio dell’operazione non fosse più così evidente.

Proposte interessanti, infine, son venute da spettacoli che più chiaramente si riallacciano a uno statuto disciplinare, ripensandone le regole di realizzazione: Bermudas di mk/Michele Di Stefano è un’azione coreografica i cui performer seguono regole d’interazione – dal gesto d’entrata al rapporto coi performer già sul palco – progressivamente sempre più nitide per il pubblico, generando un fascinoso caos ordinato. <OTTO> del trio Kinkaleri è un teatro di oggetti (o corpi ridotti spesso a oggetti) i cui radi e spesso piccoli suoni deflagrano efficacemente sopra un diffuso silenzio: teatro auto-referente o quasi, poiché il costante ricorso alla caduta e l’accenno a una ‘scena del delitto’ può innescare apertissime letture.

Si auspica comunque per questo neonato festival di performance un proseguimento (che pare promesso nella sua titolazione) e un consolidamento, insieme a una messa a fuoco della sua ragione transdisciplinare e dei suoi temi (generali-sistematici o specifici che siano). Il programma completo degli eventi effettuati nella prima edizione è consultabile sul sito www.maxxilaquila.art.

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

oltre

Lo spettacolo Mondi possibili presentato dalla Fondazione Toscanini di Parma trasforma il tema dell’accessibilità in emozione

oltre

Passaggio italiano per il trio sloveno Širom, sempre imperdibile per gli amanti delle musiche avventurose

oltre

Madrid: da Saint-Saens al rap e al gospel