Il Gaetano giovane del Donizetti Opera 2022

A Bergamo le giovanili “Chiara e Serafina” e “L’aio nell’imbarazzo” accanto a “La favorite”, successo del periodo francese

La favorite (Foto Gianfranco Rota)
La favorite (Foto Gianfranco Rota)
Recensione
classica
Bergamo, Teatro Donizetti & Teatro Sociale
Donizetti Opera 2022
18 Novembre 2022 - 04 Dicembre 2022

“A volte i poveri perdono fiducia nei sogni”. Fortunatamente quella fiducia nel sogno di riuscire nel mestiere di musicista non abbandonò mai il giovane Gaetano Donizetti, quinto figlio di un modesto portinaio del Monte di Pietà e di una filandera. A volte però la fortuna esiste. E La fortuna bacia il giovane Gaetano nell’aprile del 1806 quando entra con altri 12 ragazzi in quella Scuola di musica presso la Basilica di Santa Maria Maggiore destinata ai figli di famiglie prive di mezzi. È una meritoria invenzione del celebrato compositore bavarese Johann Simon Mayr nella Bergamo eletta a proprio domicilio elettivo dal 1802.

I primi passi di Donizetti dall’infanzia nella modesta casa di Borgo Canale fino alla fama nei maggiori teatri del mondo ha ispirato lo spettacolo Il Giovane Gaetano. Una biografia in parole e musica scritto da Ferruccio Filipazzi e inserito nel programma per famiglie dell’annuale edizione del Donizetti Opera. Un semplice palco allestito nel Foyer Gavazzeni per questa storia di riscatto sociale raccontata dalla voce dello stesso Ferruccio Filipazzi con il brillante accompagnamento a cappella del trio Les Saponettes (Barbara Menegardo, Miriam Gotti e Ilaria Pezzera). Dalle ruvide canzoni popolari della Bergamo natale fino al vivace folklore di Napoli, dove Donizetti conosce finalmente il mare, la variegata antologia musicale dà colore anche locale agli schizzi biografici che indugiano soprattutto sulla povertà della Bergamo di primo Ottocento. E poi il salto a Napoli, la città che segna la definitiva consacrazione del suo talento con il capolavoro della Lucia di Lammermoor, il cui “Per te d’immenso giubilo” nell’arrangiamento per tre voci di Miriam Gotti, come tutti gli altri pezzi, regala una conclusione festosa al racconto.

Forse più che in altre recenti edizioni, la gioventù è la cifra di questa edizione del festival. Giovane è il Donizetti di due dei tre titoli scelti nel cartellone di questa edizione accanto a uno dei capolavori del Donizetti più maturo e internazionale. Giovani sono molti degli interpreti coinvolti nelle tre produzioni, alcuni pressoché debuttanti, confermando il valore non solamente artistico del Donizetti Opera ma anche come veicolo di avvio alla professione di giovani artisti della scena lirica.

Con Chiara, Serafina e i pirati al varieté

Chiara e Serafina

Coniuga entrambi gli aspetti la riscoperta dell’edizione 2022, cioè Chiara e Serafina ossia I pirati, nona opera dello sterminato catalogo operistico del compositore, solo venticinquenne all’epoca del debutto. Quello di questa operina commissionata dal Teatro alla Scala, dunque non rifiutabile, nacque sotto i peggiori auspici. Il librettista designato, Felice Romani, consegnò in ritardissimo un libretto piuttosto scombinato, che avrebbe avuto bisogno di più di un aggiustamento. Con solo una decina di giorni di prove e la Chiara designata, ossia la primadonna Isabella Fabbrica, assente per gran parte delle prove a causa di una forte raffreddatura, a Donizetti non restò che affidarsi al mestiere e alla buona sorte, raccomandando comunque al suo maestro Simone Mayr, non senza una punta di ironia, di “portare un Requiem perché sarò ammazzato e così si faranno le esequie.” E insuccesso fu, come registrò il cronista della Gazzetta di Milano: “il pubblico vide abbassare il sipario con una fronte di bronzo”. Un insuccesso che costò al giovane Donizetti un allontanamento dal teatro milanese durato undici anni fino alla Lucrezia Borgia del 1833.

Se musicalmente la partitura è fin troppo ricca (e la mano del grande operista già si vede) e parecchio debitrice al modello rossiniano fin dalla sinfonia in due tempi con tanto di incalzante crescendo. Fa davvero acqua invece l’impianto drammaturgico, tutt’altro che lineare, costruito su un intreccio affastellato di personaggi e situazioni spesso improbabili, tratto dal “melodrame en quatre actes, en prose et à grand spectacle” di René-Charles-Guilbert de Pixérécourt vecchio di una decina d’anni.

L’ambientazione è esotica, per così dire: siamo sull’isola di Maiorca dove una tempesta fa fortunosamente approdare Don Alvaro con la figlia Chiara, dopo una prigionia durata diversi anni presso i pirati algerini. In loro assenza, don Fernando si è fatto nominare tutore di Serafina, l’altra figlia di Don Alvaro, con l’obiettivo di sposarla e metter le mani sulla sua ricca dote. Mentre Serafina sta apprestandosi a celebrare le nozze con l’amato Ramiro, sull’isola naufraga anche una ciurma di pirati, fra i quali si trova Picaro, antico servitore di don Fernando. Per rientrare nelle sue grazie, Picaro decide di aiutare don Fernando a realizzare i suoi piani matrimoniali, fingendosi il padre perduto di Serafina opponendosi alle sue nozze con Ramiro (e la sprovveduta donna se la beve tutta). L’intrigo si complica nel castello di Belmonte, dove i pirati per primi trovano rifugio in una pressoché inaccessibile cisterna e dove quindi vengono portati anche Don Alvaro e Chiara scortati dalla custode Agnese con la figlia Lisetta e l’improbabile spasimante di questa, don Meschino. Se non bastasse, Picaro decide di portare anche Serafina nel castello per sottrarla al promesso sposo. Attraverso le 19 scene del primo atto e le 14 del secondo, grazie al forte temperamento di Chiara e al pentimento di Picaro, Don Alvaro riesce a far saltare i piani di Don Fernando e far celebrare il sospiratissimo matrimonio della figlia Serafina con Ramiro. Conclusione (molto rossiniana) con una grande scena “Prendi, o padre, il tuo gran nome”, che celebra il trionfo della primadonna Chiara, l’unica capace a rimettere ordine nel caos della trama.

Di grande temperamento anche la Chiara ascoltata al Teatro Sociale, Greta Doveri, allieva dell’Accademia di perfezionamento del Teatro alla Scala come quasi tutti gli altri interpreti di questo melodramma semiserio; qualche problema di tenuta vocale, ma il carattere c’è come una certa padronanza della scena. Fra gli altri, spiccano anche lo spavaldo Picaro di Sung-Hwan Damien Park, baritono dal timbro luminoso ed espressivo e dall’emissione sicura, e i due disinvolti pirati Spalatro di Andrea Tanzillo e Gennaro di Giuseppe De Luca, bella voce di basso da tener d’occhio, mentre la vocalmente intrepida Serafina di Fan Zhou sconta una certa monotonia di espressione. Meno interessanti le prove di Hyun-Seo Davide Park come Don Ramiro, voce dall’acuto facile ma non sempre amministrata con sapienza, di Matías Moncada impegnato nel doppio ruolo di Don Alvaro e Don Fernando ma poco incisivo in entrambi, e di Valentina Pluzhnikova come Lisetta e Mara Gaudenzi come Agnese, che non si sforzano troppo di uscire dal macchiettismo dei rispettivi ruoli che servono comunque con una certa efficacia. Non è invece un debuttante Pietro Spagnoli, che mette al servizio del divertente ritratto del buffo don Meschino tutto il suo sapiente mestiere. Giovane anche il coro di pirati e maiorchini, prestato anche quello dall’Accademia del Teatro alla Scala, preparato a dovere da Salvo Sgrò.

Li accompagna e sostiene con spiccata sensibilità al canto il direttore Sesto Quatrini alla guida dell’orchestra Gli Originali su strumenti d’epoca un po’ zoppicante specialmente nella sezione fiati. Quatrini, comunque, a questo Donizetti acerbo crede eccome e fa molto per mettere in evidenza le numerose gemme (fra queste, le quattro grandi arie con strumenti solisti obbligati, fra cui “Il castello di Belmonte” di Lisetta accompagnata dall’arpa solista) e trasmettere la vitalità dei copiosi concertati.

È tutta giocata nella chiave un po’ nostalgica di un surreale varieté, sgangherato ma vitale, il divertente spettacolo allestito da Gianluca Falaschi sul palcoscenico del Teatro Sociale, piccolo gioiello incastonato fra gli stretti vicoli della città alta. La scena fissa e semplice, arricchita solo da qualche quinta dipinta per dare giusto un tocco di artigianale esotismo, è molto funzionale all’incalzante successione di eventi della trama. In alto, su un ballatoio, si affacciano i cinque camerini degli artisti sul luogo dell’azione, caotica come in un Hellzapoppin’ del melodramma. In basso si muove una pletora di artisti vestiti con costumi e parrucche esagerati e un mare di paillettes, spesso impegnato nelle coreografie in tono pensate da Andrea Pizzalis(anche surreale performer tuttofare, anche “en travesti” quando serve).

Se l’aio è un influencer

Ajo nell'imbarazzo

 

 

Se Falaschi guarda al passato, pensa invece al mondo futuro Francesco Micheli per la sua regia de L’aio nell’imbarazzo, preceduta sul piazzale antistante il Teatro Donizetti da una performance pre-opera ideata dallo stesso regista con le musiche di Jodi Pedrali e una pattuglia di personaggi vestiti con futuristiche tute arancioni disegnate da Giada Masi, autrice anche dei costumi altrettanto futuristici dello spettacolo.

Sono passati solo due anni dal fiasco di Chiara e Serafina ma sembra tutto un altro Donizetti. Le tracce rossiniane sono ancora ben presenti a cominciare dal librettista Jacopo Ferretti, autore di un testo brillante che serve benissimo la commediola del bigottissimo marchese Giulio Antiquati alle prese con due figli scapestrati: Enrico, sposato segretamente con Gilda che gli ha dato pure un figlio, e Pippetto, infatuato della matura domestica Leonarda. L’aio del titolo è Gregorio, che si impegna a raddrizzare i rampolli con risultati modesti. Nell’invenzione registica di Micheli, la vicenda parte con un antefatto contemporaneo che mostra il trauma originario subito dall’onorevole Antiquati con il tradimento della moglie con un maschio nerboruto e più attraente. Salto temporale al 2032 con l’ingaggio di Gregorio, geniale manipolatore di menti tramite social, e le fortune in politica dell’Antiquati. Infine nel 2042 si dipana la vicenda del libretto in una scenografia (disegnate da Mauro Tinti) fatta di pedane semoventi su sfondi coloratissimi grazie alle luci psichedeliche disegnate da Peter van Praet e le spassose animazioni dello Studio Tempproiettate su un grande schermo/sipario, che si immaginano frutto dell’avveniristico social “faceGRam” escogitato dall’intraprendente Gregorio. L’aggiornamento futuristico, benché aggiunga poco, non intacca la macchina di equivoci e malintesi che funziona perfettamente soprattutto grazie alla presenza di due maestri del genere buffo come Alessandro Corbelli, un Antiquati specialmente burbero, e Alex Esposito, un frenetico e spiritosissimo Gregorio, nonché responsabile della Bottega Donizetti, dalla quale vengono tutti gli altri giovani interpreti impegnati sul palcoscenico. Ancora vocalmente acerbi i rampolli Enrico, Francesco Lucii, tenore dal timbro chiarissimo e ancora poco sciolto in scena, e Pippetto, Lorenzo Martelli, che mostra già buone doti di caratterista. Più sicure le presenze femminili, soprattutto Marilena Ruta, Gilda, cui spetta la conclusione con un rossinianissimo rondò, eseguito con notevole autorevolezza vocale, e Caterina Dellaere, Leonarda, spiritosa e disinvolta. Serve bene il Coro Donizetti Opera, istruito da Claudio Fenoglio, nei brevi interventi e bene anche Lorenzo Liberati e Vittorio Giuseppe Degiacomi impegnati nei due piccoli ruoli di Simone e Bernardino. Accompagna con efficacia l’Orchestra Donizetti Opera diretta da un diligente Vincenzo Milletarì, non sempre però attento all’equilibrio con le voci (qualcuna più fragile di altre) sul palcoscenico.

Il grand opéra declinato al contemporaneo

Fotografa invece un Donizetti più maturo il terzo titolo del cartellone, La favorite presentata in versione integralissima (divertissement coreografico compreso) nell’edizione critica curata da Rebecca Harris-Warrick. Siamo a Parigi nel 1840 e Donizetti monopolizza con le sue opere praticamente tutti i teatri della capitale, tanto da provocare una polemica a mezzo stampa di sapore sciovinista al collega Hector Berlioz, probabilmente scottato dall’ancora fresco insuccesso del suo Benvenuto Cellini: “Ma come? Due grandi partiture all’Opéra, Les Martyres e le Duc d’Alba! Altre due alla Renaissance, Lucie de Lammermoor e L’Ange de Nisida! Due all'Opéra-Comique, La fille du régiment e un’altra di cui non si conosce il titolo, e un’altra ancora per il Théâtre-Italien, saranno state scritte o trascritte in un anno dallo stesso autore! Monsieur Donizetti sembra trattarci come un paese conquistato; è una vera e propria guerra d'invasione. Non si può più dire: i teatri lirici di Parigi, ma solo i teatri lirici del signor Donizetti.” (Le journal des débats, 16 febbraio 1840). Con buona pace di Berlioz, anche La favorite, frutto di alto autoriciclaggio di materiali musicali soprattutto da L’ange de Nisida, fu un trionfo. Con qualche significativa licenza rispetto all’imperante modello meyerbeeriano, La favorite è ascrivibile al grand opéra ma con un rilievo del tutto speciale (e non sorprendente) assegnato alle voci, tanto da aver reso questo lavoro un titolo “per cantanti” specie nel nostro Paese, dove spesso quest’opera è stata presentata in italiano e con tagli sostanziosi.

Al Donizetti Opera va quindi riconosciuto l’indubbio merito di aver presentato l’opera nella sua veste più autentica e, altro merito, in un’esecuzione di grande qualità. Al timone della composita macchina musicale per questa produzione si ritrova il direttore musicale del festival, Riccardo Frizza, che guida con grande vigore e slancio drammatico un’Orchestra Donizetti Opera in gran spolvero. Sul piano delle voci, al Donizetti si va sul sicuro con un trio di protagonisti affermati sulla scena lirica internazionale e i risultati si vedono. Fernand è Javier Camarena, tenore dalla voce chiara e dall’acuto squillante, sicuro nell’emissione e elegante nel fraseggio, ma con qualche limite nella prestazione scenica e nella pronuncia francese piuttosto approssimativa. Più compiute le prove di Annalisa Stroppa, trepidante Léonor dal seducente timbro brunito, e soprattutto Florian Sempey, un Alphonse XI psicologicamente sfaccettato e scenicamente affascinante. Completano il cast Evgeny Stavinsky, un Balthazar vocalmente affidabile anche se piuttosto monocorde nell’espressione, Caterina Di Tonno, una Ines vivace, e Edoardo Milletti, un Don Gaspar ben disegnato vocalmente e scenicamente.

Firma la produzione del Teatro Donizetti, in coproduzione con Bordeaux, Valentina Carrasco, che ancora una volta si misura con un grand opéra confezionato con una certa economia di mezzi ma non di idee. Scenografie poco più che funzionali ma suggestive – due grandi cancellate parallele e pochi essenziali elementi per i diversi ambienti – di Carles Berga e Peter van Praet, quest’ultimo autore anche del sofisticato disegno luci che scandiscono plasticamente i diversi ambienti fino al funereo finale in nero nel chiostro del convento di San Giacomo. Intonati all’austerità dello spettacolo anche i costumi di Silvia Aymonino, nero per gli uomini, pastello per le insolite danzatrici e violetto per la favorita del re. Qualche contestazione per la scelta di affidare la lunga parentesi del ballo coreografata da Massimiliano Volpini a un gruppo di anziane bergamasche rappresentanti “della forza e della verità della gente comune” secondo la regista. Si tratta di una declinazione all’insegna del contemporaneo “politically correct” e dell’attenzione all’inclusione delle minoranze sociali, ma che aggiorna e risolve intelligentemente l’eterno problema di come dare coerenza drammaturgica al corpo estraneo dei balli nel grand opéra, trasformandolo qui in un “memento mori” al vanitoso monarca.

Sale al completo. Pubblico internazionale. Accoglienza festosa. La formula di questo festival consacrato a Donizetti funziona e continua a crescere.

 

 

 

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