Il concetto di Anohni

Al Flowers Festival l'unica data italiana della cantante

Recensione
pop
Flowers Festival Collegno
12 Luglio 2016
Un evento, forse “l’evento” dell’estate pop italiana (almeno nelle sue incarnazioni più raffinate e meno mainstream): la data unica di Anohni (già Antony Hegarty) al [b]Flowers Festival[/b], nei fantastici spazi dell’ex Manicomio di Collegno, alle porte di Torino. Un evento esploso meno di quanto sarebbe stato ragionevole aspettarsi, visti i valori in campo e la buona visibilità mediatica di Anohni (anche al di fuori delle solite riviste specializzate) negli ultimi mesi: il parterre, stranamente e purtroppo, non è tutto pieno. Chi c’è, si divide fra le reazioni di entusiasmo incondizionato e la perplessità. Il tutto parte con un breve loop sintetico di due accordi e molto glitch, una cadenza calma e rilassante, un paio di secondi ripetuti ad libitum. Dopo poco, il loop diventa la colonna sonora del video che apre il concerto: una Naomi Campbell di un paio di metri di altezza, in tenuta vagamente fetish, che sensualmente balla guardando in camera: piacevolmente straniante per il primo minuto, affascinante per i successivi due, il tutto si trasforma in un esercizio di tedio fino a durare un quarto d’ora (soprattutto per la totale immobilità “da aeroporto” della musica). La trovata della figura femminile in video è il fulcro anche il resto del concerto, poco più di un’ora in tutto. Volti e mezzi busti di modelle di diverse età ed etnie, spesso costantemente sull’orlo del pianto, accompagnano muovendo le labbra quasi tutte le canzoni. Ai lati del maxischermo si dispongono simmetricamente Oneohtrix Point Never e Hudson Mohawke, produttori (e di fatto co-autori) del recente disco [i]Hopelesness[/i] che ha lanciato il progetto e il personaggio Anohni ([a href="http://www.giornaledellamusica.it/approfondimenti/?id=118193"]qui la recensione[/a]). In mezzo, una sorta di scalinata è a disposizione della cantante, che entra al secondo pezzo, dopo aver interamente ceduto l’iniziale “Hopelessness” a uno dei suoi avatar in video. Segue, immediatamente, quell’eccezionale canzone di protesta che è “4 Degrees”, e uno dopo l’altro tutti i brani del disco, più un pugno di inediti e qualche versione adattata al nuovo mood elettronico dal repertorio di Antony and The Johnsons. Nel finale torna anche Naomi, ora piangente, su “Drone Bomb Me”. I suoni sono incredibilmente definiti, come già su disco le batterie, gli archi e gli incastri di synth suonano mostruosi, quanto di meglio si possa probabilmente oggi ascoltare in termini di produzione. Anohni, completamente velata di nero e mai visibile in faccia, sa toccare con la sua voce corde profonde, anche quando duetta con se stessa registrata… Fermandoci qui, l’entusiasmo motivato di chi ha amato follemente lo show – e che se sta leggendo queste righe, qui può fermarsi. L'evento era, come ha acutamente detto qualcuno, un “concetto” più che un “concerto”: la messa in scena anche [i]politica[/i] di quello che Anohni è e vuole essere oggi, un personaggio pubblico carismatico ma fragile, mediaticamente esposto ma che si sottrae, una [i]voce[/i] in rapporto magnificamente contraddittorio con il [i]corpo[/i] che la ospita (al punto di affidarsi a degli avatar per la propria messa in scena). Tutto splendido, tutto brillante, tutto chiaro e levigato – troppo. Tutto, ahimè, a volte un po’ noioso: Oneohtrix Point Never e Hudson Mohawke sono semplici comprimari che mai vanno oltre il puro servizio dei pezzi (ed è un peccato), né toccano più di tanto, salvo in un paio di occasioni, le magnifiche costruzioni messe su per il disco – che è di fatto quello che si ascolta, anche “dal vivo”. La smaterializzazione della voce – grazie al volto velato e al corpo costantemente in ombra di Anohni – è, ancora, un concept azzeccato, ma che viene stiracchiato troppo, trasformando il “concetto” da geniale epifania a qualcosa di, appunto, “concettoso”.

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